Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"

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L'attentato a Umberto I alla Forti e Liberi di Monza

25 Juin 2006 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #L'ITALIA tra Ottocento e Novecento

Le cronache locali segnalavano l'arrivo a Monza dei sovrani il 16 luglio. Dalla Villa Reale Umberto I fece pervenire alla società Forti e Liberi 1000 lire. per la nuova. palestra e una medaglia d'oro da assegnare alla squadra che si sarebbe distinta nel concorso ginnico in programma per il 29 luglio, una domenica, il giorno dell'attentato.

La «tragica fine di S.M. Umberto I» sarà così ricostruita da Luigi Moderati, . nella sua Cronistoria della Città di Monza: «Luglio 29, domenica. Alla inaugurazione della nuova palestra della Società Ginnastica "Forti e Liberi" avvenuta la sera, era stato invitato anche S.M, Umberto I, che gentilmente accettò [...]. Terminate le gare di ginnastica, il sovrano scese dal palco presidenziale e salito sulla carrozza di corte, stava per uscire dalla palestra, tra vive acclamazioni di popolo festante, alle quali il Re rispondeva con saluti, quando l'anarchico Gaetano Bresci di Prato (Toscana), d'anni 31, con un tiro preciso e fulmineo, gli scaricò in pieno petto tre colpi di rivoltella.

1900 29 luglio uccisione re Umberto I

Il Re barcollò, lasciò cadere il cappello, si strinse la testa tra le mani, piegando verso sinistra, poi sedette gridando l'ordine di partire. I cavalli, che al rumore dello sparo si erano impennati, partirono a galoppo. Lungo il breve, tragitto il Re si scosse, poi cadde riverso, cogli occhi sbarrati. Pare dall'induzione dei medici che sia spirato mentre la carrozza passava il cancello della Villa Reale. La Regina abbigliata in abito da pranzo attendeva al ritorno il Re allo scalone. Appena vide dinnanzi il cadavere del consorte svenne. Fu raccolta e portata via dai familiari, mentre i generali Ponzio Vaglia, Mainoni e Serafini trasportavano il Sovrano nella sua camera da letto».

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Gaetano Bresci, afferrato dalla folla, viene arrestato dalle forze dell’ordine. Processato, viene condannato all’ergastolo: muore a sua volta il 22 maggio 1901 nell’isola carcere di S. Stefano.

I nuovi sovrani giunsero a Monza il mercoledì sera. Nella mattinata del giorno dopo il nuovo re presiedeva, in una sala della villa monzese il consiglio dei ministri. «Venerdì Vittorio Emanuele III mandò il Conte Borea da monsignor Arciprete per esprimergli il suo desiderio che la Corona Ferrea figurasse nella cappella ardente e di poi nei funerali [...]. Il mercoledì successivo, fin dalle prime ore del mattino, la città si animava di popolani venuti dai, paesi vicini; dalle finestre e dai balconi venivano appesi paramenti a lutto. Alle ore 14,30 arrivavano a palazzo Reale in due carrozze di Corte i presidenti del Senato e della Camera onorevoli Finali e Villa e i ministri [...]. Alle 15,30 il corteo percorse silenzioso le vie della città fra la generale commozione e l'unanime rimpianto.

1900 Monza funerali di Umberto I

Giunto il corteo alla stazione e fermatosi l'affusto sotto l'atrio reale, i corazzieri levarono il feretro e lo trasportarono sulla carrozza funebre. Presso la salma stavano due genuflessori, su quello ai piedi della bara venne adagiato il cuscinetto col collare della S.S. Annunziata e sull'altro, alla testa del feretro venne posto l'altro cuscinetto colla sacra Corona Ferrea. Alle 16,27, saliti i principi e gli altri personaggi, il treno si mosse e partì fra il solenne e religioso silenzio di tutto il popolo che era accorso, per salutare l'ultima volta il suo Re, che gli era stato così tragicamente rapito».

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Le spoglie di Umberto I sono tumulate a Roma nel Pantheon.

La tragica morte di Umberto I non ebbe grandi ripercussioni sulla vicenda politica italiana: la spinta repressiva si era ormai esaurita e i tentativi del governo Pelloux di limitare le libertà nel paese e in Parlamento erano falliti nel '99. Anche le elezioni del 2 giugno 1900 non portarono fortuna ai sostenitori della linea reazionaria: ebbero 600.000 voti contro i 650.000 complessivi dell'opposizione. «Gli stessi borghesi lombardi che un anno prima, nel maggio del 1898, avevano tremato d'orrore e chiesto a gran voce lo stato d'assedio, votarono contro i candidati ministeriali».

A Monza il regicidio contribuì a spegnere il ricordo doloroso dei luttuosi fatti del '98 e a rimettere in circolazione gli esponenti del conservatorismo locale: nello stesso anno, qualche mese dopo l'attentato di luglio, si costituiva pure l'Associazione monarchica del circondario monzese. La città però perdeva per sempre i suoi ospiti coronati: il «palazzo arciducale di campagna» realizzato dal Piermarini per Ferdinando d'Austria, dopo oltre un secolo di fasti e splendori come dimora regale, veniva definitivamente abbandonato e chiuso dai Savoia. Monza non sarà più un centro di villeggiatura per i sovrani d'Italia e le corti d'Europa.

Bibliografia:

Emilio Diligenti e Alfredo Pozzi - La Brianza in un secolo di storia d'Italia (1848-1945) – Teti Editore 1980

Le immagini sono tratte dalle Cartoline di Alfredo Viganò pubblicate in arengario.net

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L'eccidio di Sant'Anna di Stazzema

13 Août 2012 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #avvenimenti recenti

Commemorazione della strage in Toscana, alla presenza del presidente tedesco del Parlamento europeo Martin Schulz. 

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SANT'ANNA DI STAZZEMA - "M'inchino di fronte alle vittime di Sant'Anna. E' per loro che abbiamo la responsabilità di costruire l'Europa e di proteggerla dalla speculazione che fa soffrire i popoli e nutre i nazionalismi". Lo ha scritto, in italiano, il presidente del Parlamento europeo, il tedesco Martin Schulz, che oggi era in Toscana a commemorare - insieme con autorità italiane e familiari delle vittime - i 560 morti provocati dall'orrore nazista 68 anni fa nel paesino in provincia di Lucca. Ad aprire il corteo che porta all'ossario sul Colle di Cava c'erano, con Schulz, il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, il sindaco di Stazzema Michele Silicani e le autorità religiose, civili e militari, oltre a tantissimi gonfaloni di comuni. Una giornata dedicata anche al ricordo dei milioni di morti causati dalla 'follia nazista'.

Sotto l'ossario che ricorda l'eccidio, davanti ai pochi superstiti, ai familiari delle vittime e ai tanti gonfaloni dei Comuni il presidente del parlamento europeo parla in tedesco avvalendosi di una traduzione simultanea. E dice : "La lingua che io parlo è la stessa degli uomini che hanno compiuto questo eccidio. Non lo dimentico. Sono qui come tedesco e come europeo. l'Europa è la via migliore per non ripetere crimini come questo".

Schulz ha detto di non riuscire a "descrivere con parole la crudeltà di tali fatti. Mi presento oggi a voi come tedesco, profondamente scosso dalla disumanità dell'eccidio qui perpetrato in nome del mio popolo". Eppure, ha proseguito il presidente del parlamento europeo, anche oggi c'è chi dice di voler smantellare l'Europa: "Abbiamo cambiato le strutture, facendo nascere l'Europa, ma non abbiamo cambiato gli uomini. Questi sono sempre uguali e sono sempre capaci di commettere crimini come questo". Solo l'Europa, invece, può impedirlo: "E non possiamo permettere oggi che l'Europa venga distrutta da quelle forze speculative che hanno ridotto tanta gente alla disperazione".

"Bisogna non dimenticare mai - ha ammonito Schulz - bisogna mantenere vivo il ricordo. Affinché mai più in Europa ideologie disumane e regimi criminali tornino a mostrare il loro ghigno odioso... La libertà, l'umanità devono essere riconquistate ogni giorno. Questo è il nostro compito di epigoni, questa è la missione che ci hanno assegnato i martiri di Sant'Anna di Stazzema. Vi ringrazio di cuore per tenere vivo il ricordo dei martiri e per permettermi, come tedesco, di commemorarli e di unirmi al vostro lutto. E' un dono fatto a me personalmente"

"Noi tutti dobbiamo scendere in campo contro il ritorno di modi di pensare che hanno sempre portato ai popoli europei nient'altro che disgrazie - ha proseguito Schulz - e minacciano ora di mandare in rovina anche l'Unione europea. Non possiamo permetterci di ricadere negli antichi errori. Se questo spirito foriero di sciagure per i popoli europei conquistasse la maggioranza degli Stati membri dell'Unione, se gli riuscisse di rimettere in questione il carattere di collante di popoli di questa Unione, allora ritornerebbero con esso anche gli spettri della prima metà del XX secolo".

Martin Shultz ha parlato poi di Europa: "Io non vorrei un imperialismo del marco. Abbiamo bisogno di una valuta comune perchè solo una valuta comune ci rende più forti. In Germania - ha aggiunto - ci sono persone che dicono che si dovrebbe reintrodurre il marco perchè così saremmo più forti, mentre la lira, la peseta e il franco sarebbero deboli. Io rispondo, è vero. Ma in questo modo la Germania diventerebbe troppo grande per l'Europa e troppo piccola per il mondo. Da sola non potrebbe affrontare i mercati globali".

 

Il messaggio del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Tra i numerosissimi ricordi dell'eccidio, quello del presidente Napolitano. In un messaggio al sindaco Silicani, e a tutti i convenuti alla commemorazione, Napolitano scrive: "Quel 12 agosto 1944 che vide cadere sotto il piombo della barbarie nazifascista 560 vittime inermi, in gran parte vecchi, donne, bambini, è una data scolpita nella memoria di chi visse quei terribili avvenimenti e di chiunque ne conservi il ricordo".

'Il dolore e l'orrore di quella giornata hanno trovato un nuovo momento di commossa rievocazione nella recente concessione a Cesira Pardini della Medaglia d'Oro al Merito Civile per l'eroico gesto compiuto, in quel terribile frangente di efferata brutalità, per salvare a rischio della propria vita la madre e le sorelle" - prosegue Napolitano - "Esempi di generosa solidarietà  sono essenziali per tramandare, soprattutto alle giovani generazioni, i principi di libertà, giustizia e solidarietà che animarono le scelte di allora e sono stati posti a fondamento della rinascita civile e democratica del nostro paese".

da un articolo di MASSIMO VANNI

La Repubblica (13 agosto 2012)

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Aktion T4

6 Janvier 2014 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

nella foto: l'edificio di 4 Tiergartenstrasse (Via del Giardino zoologico n°4) di Berlino, sede di Aktion T4.

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Settantacinque anni fa il nazismo impose la logica della disumanizzazione, di un corpo-stato, governato da un capo, che espelle le parti malate di sé.

La scienza diede il proprio avallo, la Chiesa tacque, molti girarono lo sguardo altrove. Poi, fu troppo tardi.

Cominciarono a morire prima dei campi di concentramento, prima degli zingari, prima degli ebrei, prima degli omosessuali e degli antinazisti e continuarono a morire dopo, dopo la liberazione, dopo che il resto era finito.

 

Già prima dell’arrivo al potere di Hitler, autorevoli medici si erano pronunciati a favore dell’eliminazione dei malati mentali e più in generale dei pazienti affetti da malattie giudicate incurabili. Hitler stesso aveva affermato in modo esplicito la necessità di «purificare la razza germanica». Temendo le reazioni degli ambienti religiosi, il Führer non attuò subito il suo progetto.

Nel 1935, la promulgazione della legge sulla sterilizzazione dei malati mentali rese evidenti e fondate le loro preoccupazioni e provocò le proteste della Chiesa.

Occorreva attendere un contesto più favorevole: ciò avverrà durante la guerra. È significativo che il decreto, che ordinava di «accordare l’autorizzazione per dare la morte a malati, che, entro dati limiti di giudizio e dopo un approfondito esame medico, saranno dichiarati incurabili», sia datato 1° settembre 1939. Inoltre, basandosi su un rapporto di un teologo, Josef Meyer, che valutò la posizione delle autorità religiose sulla questione dell’eutanasia e le cui conclusioni erano assai vaghe, Hitler ritenne che poteva correre il rischio di attuare il suo piano.

Questo decreto, promulgato nel più grande segreto dalla Cancelleria e mai reso pubblico, non fu conosciuto che da una ristretta cerchia di persone; diversi ministri ne ignorarono l’esistenza per lungo tempo. Il capo della Cancelleria, Philip Bouhler e il medico personale di Hitler, Kurt Brandt, furono incaricati personalmente della sua applicazione. Per questo essi crearono diversi organismi dai nomi anodini che erano incaricati dell’operazione. Il principale si trovava a Berlino, al numero 4 di Tiergartenstrasse, da cui il nome in codice «T4» dato all’operazione. La centrale T4 si servì di un comitato di esperti costituito da circa 25 psichiatri, tra cui sette professori titolari di cattedre universitarie.

Tutti gli ospedali psichiatrici del paese dovettero presto riempire un questionario destinato a censire il numero degli ammalati presenti e a valutare la natura delle loro malattie. Qualche settimana dopo, la direzione dell’ospedale riceveva una lettera del ministero degli Interni che ordinava il trasferimento di alcuni malati per motivi militari. Una società di trasporto di malati, la GEKRAT, appositamente creata per l’operazione e costituita unicamente da SS, veniva a prendere in consegna gli ammalati per portarli negli “istituti di eutanasia”.

Dopo diverse prove, alla fine del 1939, il procedimento di asfissia con l’ossido di carbonio fu ritenuto il più efficace e, nel corso dell’anno seguente, entrarono in funzione cinque centri: i cadaveri venivano inceneriti nei forni crematori. Le famiglie venivano poi informate del decesso dei loro familiari con una lettera del ministero degli Interni che precisava che, su loro richiesta, potevano ricevere le ceneri del defunto. Poi veniva consegnato loro un certificato; il caso era chiuso: la morte del malato era legalizzata.

Nel corso dell’autunno 1939, quando i direttori degli ospedali psichiatrici compilano i questionari, non si allarmano più del normale. Li riempirono e gli automezzi della GEKRAT vennero a cercare i primi malati. Ma nel corso della primavera del 1940 quando le lettere dei decessi arrivarono ai familiari, molti capirono cosa era successo.

Coloro che si mostrarono più ostili furono generalmente coloro che dirigevano gli ospedali privati (circa il 35% degli psichiatri tedeschi), gestiti dalla Missione interna delle Chiese evangeliche. Tuttavia non sapevano come reagire. Alcuni tentarono, ad esempio, di negoziare la riduzione del 10% degli effettivi malati richiesti, ma alla visita seguente della GEKRAT, coloro che erano stati risparmiati finivano nuovamente sulla lista. Nello stesso tempo i medici, isolati, non sapevano a quale tattica ricorrere. Alcuni si rifiutarono di rispondere ai questionari, ma la centrale T4 si affrettava ad inviare una commissione di esperti per farli riempire al loro posto. Occorreva una forza considerevole per salvare qualche malato, inventando vari pretesti. Uno dei mezzi più efficaci fu semplicemente quello di invitare i parenti a ritirare i loro familiari, ma ben presto un decreto ministeriale proibì ai dirigenti degli ospedali di procedere in questo modo. Ci furono delle eccezioni. In particolare, il pastore Fritz von Bodelschwingh, direttore del grande centro per epilettici di Bethel, in Westfalia riuscì ad opporsi all’accanimento: avendo stabilito un contatto personale con il medico personale di Hitler, Kurt Brandt, salvò gli ottomila malati del suo ospedale.

Ma coloro che avevano ideato l’operazione avevano sottostimato la reazione delle famiglie. Genitori che non capendo il motivo del decesso del loro figlio, iniziavano delle azioni per scoprirne le cause, ben presto scoprivano l’orribile verità. Inoltre il servizio T4 commise degli errori grossolani: certificati di decesso indicavano, ad esempio, come causa della morte una crisi di appendicite per un malato che non era stato operato; alcune famiglie ricevettero due urne anziché una; altre un certificato di decesso quando il loro familiare era ancora in vita.

Nei necrologi della stampa locale, l’incremento dei decessi di malati negli ospedali della regione finì per insospettire; subito il T4 fece proibire la pubblicazione dei necrologi sulla stampa. Alla lunga l’andirivieni degli autocarri della GEKRAT non potevano più passare inosservati nei centri dove si recavano. Arrivavano sempre pieni e ripartivano vuoti. I fumi che uscivano dopo i loro passaggi non lasciavano più dubbi sulla loro venuta.

Progressivamente una sensazione di paura si impadronì della popolazione tedesca. La gente era spaventata dalla potenza di uno Stato che poteva così impunemente uccidere degli innocenti. Degli anziani incominciarono a pensare che dopo i malati mentali sarebbe arrivato il loro turno. A posteriori, non si può dire che il popolo tedesco non potesse reagire a una tale aggressione. Pertanto, questa forte emozione dell’opinione pubblica, già intensa in alcune regioni nel corso dell’estate del 1940, a fatica trovò dei portaparola istituzionali, capaci di fare pressione sulle pubbliche autorità.

Il programma di eutanasia provocò dei sommovimenti negli ambienti giudiziari. Hitler aveva chiesto lo studio di un disegno di legge sulla questione, ma in ultima analisi, l’idea era stata respinta.

Aktion T4 si sviluppò quindi al di fuori di tutto il quadro giuridico, cioè nella più totale illegalità. Inoltre diversi procuratori di provincia furono investiti delle querele dei familiari degli scomparsi. Essendo all’oscuro di tutto, non erano in grado di dare delle risposte a queste richieste. Con l’aumentare del numero delle querele, Bouhler e Brandt decisero di convocare i presidenti e i procuratori dei tribunali. Nel corso di questa conferenza, il 21 e 22 aprile 1941, esposero le ragioni e lo svolgimento del programma, senza incontrare una maggiore opposizione tra i magistrati.

I rapporti trasmessi dai responsabili locali del partito nazista segnalavano ugualmente l’inquietudine crescente della popolazione. Anche gli ambienti militari si sentivano coinvolti, in quanto gli invalidi di guerra, trattandosi di persone handicappate o incurabili, rientravano tra i malati da eliminare. Nacquero dei dissensi anche tra lo Stato maggiore del Reich quando ne vennero al corrente. Himmler, in particolare, non fu mai troppo convinto di questa politica. Quanto a Goebbels temeva le reazioni degli ambienti cattolici. Egli riteneva che per vincere la guerra occorresse non prendersela con le Chiese. Per Goebbels, infatti, le Chiese contribuivano a mantenere un buon morale nella popolazione, fattore fondamentale per vincere le guerre. Una volta vinta la guerra, sarebbe venuto il tempo  per regolare i conti con la «pretaglia». Goebbels aveva ragione. Le gerarchie ecclesiastiche, benché presto informate di quello che succedeva nei centri psichiatrici, non furono tra le prime a reagire. I movimenti di protesta si levarono dalla base delle Chiese. Alcuni pastori della Missione interna delle Chiese evangeliche fecero diversi passi presso le autorità. Il pastore Paul Gerhard Braune fece anche numerosi tentativi presso alti funzionari, anche dei ministeri, che gli confessavano però la loro impotenza. Decise allora di redigere un memorandum, facendo riferimento a delle prove incontestabili da lui raccolte e da diversi suoi colleghi. Questo testo, inviato alla Cancelleria il 9 giugno 1940, sottolineava le preoccupazioni dei militari e si incentrava sul problema della definizione della nozione di incurabilità: «Chi è anormale, asociale, malato senza speranza di guarire? Che cosa se ne farà dei soldati che combattendo per la patria avranno riportato dei mali incurabili? Negli ambienti militari già se ne parla». Senza accordarsi, Theophil Wurm, vescovo protestante di Wurtemberg, invia anche lui, il 5 luglio 1940, una lettera circonstanziata al ministro degli Interni; scrive anche al ministro di Giustizia. Utilizzando abilmente la fraseologia nazista e riferendosi alle dichiarazioni del Führer per una «fede cristiana positiva», il primo di questi testi circola all’insaputa del suo autore negli ambienti del partito e dell’esercito producendo un grande impatto.

Nell’autunno 1940, alcuni pastori tentano allora di suscitare una presa di posizione comune delle Chiese protestanti. Ma il pastore Ernst Wilm, che fu la colonna portante di questo progetto, dovette constatare che anche all’interno della Chiesa protestante si era divisi sulla tattica da seguire. Altri pastori prendono altre iniziative senza raggiungere alcun risultato, tranne che l’arresto e in alcuni casi la deportazione dei loro autori.

La Germania stava allora riportando dei trionfi militari. In effetti, tra il mese di aprile e il mese di giugno del 1940, le considerevoli conquiste territoriali facevano passare in secondo piano i problemi interni del paese. Nell’insieme, l’alto clero applaudì alla successione impressionante di queste vittorie e, contemporaneamente Aktion T4 continuava la sua azione infernale.

Accadde allora che alcuni prelati cattolici si decisero a prendere la parola e a protestare pubblicamente contro questa impresa di morte a cui occorreva porre fine. Nel corso dell’estate 1940, un numero crescente di sacerdoti e di religiose fecero pressione sui loro vescovi affinché reagissero apertamente. In un primo tempo i vescovi cattolici preferirono adottare gli stessi procedimenti confidenziali dei loro colleghi protestanti.

Il 1° agosto 1940, l’arcivescovo di Friburgo, Konrad Grober, autore di un’opera contro l’eutanasia pubblicata nel 1937, inviò una lettera di protesta al ministro degli Interni. Il 15 dicembre 1940, in risposta ad una lettera del vescovo di Berlino, von Preysing, deciso ad agire pubblicamente e con forza, il papa Pio XII condannò fermamente l’eutanasia e invitò i vescovi tedeschi a reagire. Ma costoro tuttavia esitavano a fare delle dichiarazioni esplicite anche per l’opposizione del presidente della Conferenza episcopale, l’arcivescovo e cardinale di Breslan, Adolf Bertram. L’11 agosto 1940, costui aveva indirizzato una lettera confidenziale alla Cancelleria per ricordare la condanna dell’eutanasia da parte della Chiesa cattolica. Ma si rifiutò di avere un confronto diretto con il regime, preoccupato di preservare i beni della Chiesa, di cui si doveva prender cura. Contemporaneamente l’uccisione dei malati «incurabili» era divenuta di pubblica notorietà.

Confortato dalla lettera di sostegno del papa, il vescovo di Berlino, von Preysing, si decise a prendere la parola. In un discorso del 9 maggio 1941, criticò apertamente le «morti per eutanasia». Il 12 luglio 1941, dopo lunghe tergiversazioni, la Conferenza episcopale inviò al governo un testo in cui si pronunciava apertamente contro l’eutanasia in termini molto generali.  Gli attacchi più forti vennero finalmente dalla Westfalia con il sermone del vescovo di Münster, Clement August von Galen. Costui non era fondamentalmente ostile al regime. Grande aristocratico, patriota convinto ed ex combattente, riteneva che l’ideologia nazista avesse degli eccessi che occorreva combattere. Con dei termini a volte molto bruschi, il 13 luglio 1941, condannò le brutalità della Gestapo. Il 20 chiamò i cristiani alla fermezza di fronte alle pratiche del regime. Poi, il 3 agosto, nel suo discorso diventato il più celebre, denunciò con forza l’assassinio dei malati mentali. Ricordò di aver fatto causa davanti ai tribunali contro i crimini commessi nella sua diocesi, facendo riferimento all’articolo 139 del codice penale che stabiliva che «colui che è a conoscenza reale di un progetto di un assassinio e omette di farne denuncia, sia alle autorità, sia alla persona minacciata, nei tempi dovuti, sarà punito». Poiché questa denuncia non ebbe alcun seguito giudiziario, egli chiamò i cristiani alla resistenza. «Con coloro che vogliono continuare a provocare la giustizia divina, che rubano e cacciano i nostri religiosi e con coloro che uccidono degli uomini innocenti, fratelli e sorelle, noi dobbiamo evitare ogni contatto. Noi vogliamo sottrarci alla loro influenza al fine di non essere contaminati dai loro pensieri e dalle loro empie azioni ... ».

Tre preti di campagna furono uccisi per aver ripreso nelle loro parrocchie il discorso di von Galen.

In seguito altri vescovi denunceranno l’eutanasia, ma furono i sermoni del «Leone di Münster» che ebbero un maggior impatto sull’opinione pubblica e sul potere. Essi furono riprodotti e diffusi in tutti i paesi e in Europa. Anche uno degli eroi dell’aviazione tedesca, Werner Molders, fervente cattolico, che Hitler aveva decorato con la “Croce di ferro”, protestò contro l’eutanasia.

Ormai le operazioni T4 non erano più segrete. Anche il capo delle SS, Himmler, era favorevole alla sua interruzione anche perché gli ambienti militari esprimevano severe critiche. Il maresciallo Keithel intervenne mettendo in evidenza che tra i malati si trovavano dei soldati della guerra del 1914-1918.  Anche il partito nazista era diviso se arrestare o no von Galen. Mentre Bormann si pronuncia per l’eliminazione fisica del vescovo, Goebbels scrive sul suo giornale che qualunque cosa capiti al vescovo di Münster può provocare la perdita del consenso alla guerra di tutta la popolazione della Westfalia.

Da due mesi ormai la Germania aveva ingaggiato una formidabile battaglia contro l’Unione Sovietica e tutte le forze della nazione erano mobilitate. Hitler riteneva che non si poteva correre il rischio della divisione all’interno del paese.

Il 24 agosto 1941, una «fuga di notizie» dalla Cancelleria lasciò intendere che Aktion T4 contro i malati era stata fermata e che si attribuiva al Führer la responsabilità di questa interruzione. Sembra che Hitler interpretò questa decisione come una sconfitta personale. Nel suo animo nutriva un sentimento di rivincita: riprenderà il dossier una volta che la guerra sarà vinta per regolare i conti con le Chiese, che odiava ferocemente. Sapeva che, per il momento, il regime aveva bisogno del loro appoggio.

In meno di due anni Aktion T4 aveva fatto tra 70.000 e 100.000 vittime tra cui 5.000 bambini. Tuttavia il programma non fu completamente fermato: entrarono in funzione i campi di sterminio in Polonia, dove il personale del T4 venne trasferito.

Il personale T4 non viene disperso, l'esperienza accumulata è considerata preziosa, saranno trasferiti oltreconfine, a oriente, saranno tra i protagonisti di quella che gli artefici chiamano soluzione finale e le vittime olocausto. Senza l'esperienza dei centri di uccisione forse non sarebbero riusciti a immaginare dei campi di sterminio.

È tuttavia vero che, per la prima volta dal suo arrivo al potere, Hitler subiva uno scacco dal suo popolo che riteneva aver sottomesso.

Il 1° settembre 1941, nello stesso momento in cui cessavano le esecuzioni dei malati mentali, gli ebrei erano costretti a portare la stella gialla. Le prime esecuzioni di massa degli ebrei iniziavano in Polonia e in URSS.

Dal 1933, in generale, né le Chiese né la pubblica opinione avevano manifestato la loro opposizione alla persecuzione degli ebrei ad eccezione di qualche caso come quello del pastore Dietrich Bonhoeffer. É un fatto che la società tedesca ha tollerato l’aggressione degli ebrei ma non quelle dei malati mentali.

Ufficialmente T4 cessa. E abbiamo anche il bilancio, perché a Hartheim,

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in uno dei centri di uccisione (nella foto), dove quasi tutto è stato bruciato ma qualcosa nella fretta è sfuggito, trovano questa lista della spesa, la trovano in un armadio.

È calcolato che fino al 10 settembre 1941 sono stati disinfettati 70.273 pazienti. [ ... ]

Calcolando un costo giornaliero di 3,50 Reichsmark, abbiano fatto risparmiare:

- 4.781.339,72 kg di pane;

- 19.754.325,27 kg di patate.

Poi marmellata, margarina, caffè d'orzo, zucchero, farina, carne e salsicce, burro, legumi, pasta, prosciutto crudo, verdure di campo, sale e spezie, ricotta, formaggio per un totale di 33.733.033,40 kg.

E inoltre 2.124.568 uova.

L'allontanamento, l'eliminazione di questi pazienti dai reparti si calcola faccia risparmiare spese ospedaliere per 88.543.980,00 Reichsmark all'anno.

L'allontanamento, l'eliminazione di questi pazienti dai reparti si calcola faccia risparmiare spese ospedaliere per 88.543.980,00 Reichsmark all'anno.

E ufficialmente T4 finisce e il suo bilancio definitivo è scritto lì: 70.273 persone, ma la verità è che durante Aktion T4 sono stati uccisi e passati per il camino circa trecentomila esseri umani classificati come «vite indegne di essere vissute».

70.273 persone è un consuntivo di bilancio.

Ma non é finita. Si chiudono i centri di uccisione più chiacchierati e gli altri vengono riconvertiti, alcune camere a gas continueranno a funzionare. Non per i ricoverati dei manicomi, ma per i prigionieri dei campi di concentramento più vicini.

Diventeranno sedi distaccate di lager.

Non ci sono rallentamenti nella produzione, ma ogni filiale va per conto suo e nessuno coordina più. Ogni medico diventa arbitro del suo reparto, ha potere di tenere in vita o di concedere morte pietosa. Quasi nessuno ormai lo trova strano, si sono abituati a uccidere o a far morire di fame i pazienti.

Nel 1942, un anno dopo la fine ufficiale di Aktion T4, a Berlino, presso il ministero dell'Interno, sono convocati urgentemente tutti i direttori degli ospedali psichiatrici bavaresi. I partecipanti sono vincolati al segreto di Stato. Hanno bisogno di accelerare i decessi, liberare posti negli ospedali e ridurre i costi di gestione, e anche finire il lavoro cominciato.

Perché c'è la guerra da mandare avanti, non possiamo sfamare certe bocche, sono nutzlose Esser, mangiatori inutili, mangiatori inutili.

Il dottor Valentin Faltlhauser, consulente di Aktion T4, è lui a imprimere una svolta al lavoro di molti ospedali, di molti medici e infermieri. È lui in quella riunione a decidere la sorte di tantissimi ricoverati nei tre anni successivi.

Faltlhauser prende la parola come direttore sanitario preoccupato di contenere i costi di ricovero dei suoi pazienti, e dice: «Nella nostro ospadale applichiamo una dieta assolutamente priva di grassi. La chiamo dieta E».

Questa è una dieta assolutamente priva di grassi. Diventa la dieta ufficiale per tutti i manicomi del Sud della Germania. Secondo il dottor Faltlhauser, in un tempo variabile da sei a dieci-dodici settimane i malati muoiono, muoiono per edema da fame. Funziona, la dieta E.

Per quelli con cui non funziona, si può ricorrere a iniezioni, psicofarmaci, barbiturici. In overdose, in maniera da sospendere le funzioni vitali del malato e fare in modo che poi egli muoia da solo, dimenticandosi di vivere.

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Nel 2006 è stata siglata alle Nazioni Unite la Convenzione internazionale dei diritti delle persone con disabilità, il cui scopo è: (articolo I)

promuovere, proteggere e garantire il pieno e uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità.

Nessuno - recita l'articolo 15 - può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. In particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il proprio libero consenso, a sperimentazioni mediche o scientifiche.

Bibliografia:

Jacques Semelin, Sans armes face à Hitler, Petit Bibliothèque Payot 1998

Marco Paolini, Ausmerzen, Einaudi 2012

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Su “AKTION T4”, l’ANFASS (Associazione Famiglie di Disabili Intellettivi e Relazionali) di Modena ha curato una mostra dal titolo “Ricordiamo. Perché non accada mai più, vedere la presentazione in :

http://video.repubblica.it/edizione/bologna/giornata-memoria-modena-ricorda-lo-sterminio-dei-disabili/117494/115956?ref=search

La mostra è in Biblioteca a Lissone in occasione del "Giorno della Memoria" 2014

Lissone Memoria 2014 logoMostra AKTION T4

pieghevole mostra Aktion T4

È un percorso rivolto a tutti e in particolare ai più giovani, agli studenti, alle scuole. Un modo per onorare la memoria di quelle vittime innocenti e destare domande e riflessioni.

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Le leggi razziali del fascismo e la scuola

12 Septembre 2018 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #la persecuzione degli ebrei

Il razzismo fascista non fu "all'acqua di rose". Le leggi razziali del fascismo furono una vergogna e una infamia imperdonabile. A causa di quelle leggi migliaia di ebrei italiani furono perseguitati, umiliati, ridotti alla fame, arrestati e poi spediti nei campi di sterminio.

Le leggi razziali furono emanate nel 1938: il 14 luglio venne pubblicato il "Manifesto del razzismo italiano" redatto, sotto l'egida del ministero della Cultura Popolare, da un gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle università italiane, poi trasformato in decreto, il 15 novembre dello stesso anno, con tanto di firma di Vittorio Emanuele III di Savoia, Re d'Italia e imperatore d'Etiopia "per grazia di Dio e per volontà della nazione".

Con il manifesto e con le leggi successive, agli ebrei venne proibito di prestare servizio militare, esercitare l'ufficio di tutore, essere proprietari di aziende, essere proprietari di terreni e di fabbricati, avere domestici "ariani". Gli ebrei venivano anche licenziati dalle amministrazioni militari e civili, dagli enti provinciali e comunali, dagli enti parastatali, dalle banche, dalle assicurazioni e dall'insegnamento nelle scuole di qualunque ordine e grado. Infine, i ragazzi ebrei non potevano più essere accolti nelle scuole statali. Insomma una vera e propria tragedia per migliaia di persone, magari con alle spalle anni ed anni di onoratissimo lavoro.

Una delle prime istituzioni statali in cui fu introdotto l'antisemitismo fu proprio la scuola già a partire dall'estate 1938.

Le leggi razziali del fascismo e la scuola

Il razzismo era completamente estraneo alla coscienza e alla tradizione italiana; l'applicazione delle leggi discriminatorie procedette a fatica e con parecchie resistenze.

Il 19 luglio 1938 - poco dopo la pubblicazione del documento noto come "Manifesto degli scienziati razzisti" - la Direzione generale per la demografia e per la razza, organismo istituito in seno al ministero degli Interni e preposto all'applicazione della normativa persecutoria antiebraica, dispose il censimento di tutti gli ebrei appartenenti all'amministrazione statale. In agosto fu vietato a tutte le scuole di accettare alunni stranieri ebrei (compresi quelli dimoranti in Italia) per il successivo anno scolastico, mentre era previsto il licenziamento dei professori incaricati e dei supplenti ebrei. L'appartenenza alla razza ariana divenne essenziale per entrare nel pubblico impiego. Sempre nello stesso mese il ministro Bottai con una circolare ministeriale sollecitava i provveditori alla massima diffusione nelle scuole primarie e secondarie della rivista " La difesa della razza", diretta da Telesio Interlandi.

Le leggi razziali del fascismo e la scuola
Le leggi razziali del fascismo e la scuola

Un'altra circolare disponeva il divieto di adozione dei libri di testo di autori di razza ebraica.

In settembre insegnanti ed alunni ebrei, salvo eccezioni, erano esclusi dalle scuole pubbliche italiane. La sospensione dal servizio per maestri e professori sarebbe scattata a partire dal 16 ottobre. A tale misura dovevano adeguarsi anche presidi, direttori, assistenti universitari, liberi docenti, membri delle Accademie, degli Istituti, delle Associazioni di scienze, lettere e arti e tutte le altre persone di "razza ebraica" impiegate, con qualsiasi mansione, nelle scuole (bidelli, segretari), negli uffici del ministero.

Lo Stato si impegnava ad istituire a proprie spese sezioni "separate" di scuola elementare nelle località in cui vi fossero stati almeno dieci bambini ebrei in età scolare; in queste scuole anche gli insegnanti potevano essere di razza ebraica. Il ministero dell'Educazione nazionale autorizzava, comunque, le comunità israelitiche ad aprire scuole elementari per i propri bambini.

I decreti di settembre colpirono 200 professori (98 erano docenti universitari) e 5.600 allievi, di cui 4.400 erano scolari, 1.000 alunni di scuola media, 200 studenti universitari, inoltre più di 133 aiuti e assistenti universitari, 114 autori di libri di testo.

La discriminazione razziale nella scuola fu ufficialmente annunciata dal ministro Bottai in persona in una trasmissione radiofonica diffusa il 16 ottobre 1938, in occasione dell'apertura del nuovo anno scolastico: «... La Scuola italiana agli italiani ... Gli ebrei avranno, nell'ambito dello Stato, la loro scuola, gli italiani la loro ...».

La normativa persecutoria fu accompagnata da una accesa campagna propagandistica nella scuola - con conferenze, lezioni, opuscoli, articoli sui periodici scolastici e non - volta a prevenire o annullare le reazioni negative ai provvedimenti.

Le scuole furono invitate ad abbonarsi a “La difesa della razza”.

Nella scuola non vi fu, quindi, unicamente l'introduzione della legislazione persecutoria nei confronti degli ebrei. Dall'autunno del 1938 gli studenti di "razza ariana" rimasti nelle classi furono educati ad essere consapevoli e fieri della loro superiorità razziale. Razzismo e antisemitismo si diffusero nei libri di testo, nell'insegnamento e nella formazione degli stessi insegnanti, nella vita scolastica quotidiana.

Le leggi razziali del fascismo e la scuola

Furono create ventidue scuole elementari e tredici medie che consentirono di far proseguire gli studi ai giovani e ai bambini cacciati dagli istituti pubblici.

Dal diario di una bambina ebrea torinese: «Oggi è il primo giorno della mia nuova vita di scuola. Andandoci pensavo con rammarico alla mia maestra e alle compagne che avevo dovuto lasciare».

Scrive nel suo libro “La farfalla impazzita” Giulia Spizzichino, ebrea romana sfuggita alla retata del 16 ottobre 1943 nel ghetto di Roma:

«L’elemento personale che associo alle leggi razziali sono le lacrime di mia madre, il brutto giorno in cui io venni allontanata dalla scuola. Lì per lì mi colpirono molto, non l’avevo mai vista piangere. Una mattina, frequentavo l’avviamento commerciale da un paio di mesi, il preside la convocò a scuola e con aria contrita le disse che non potevo più frequentare le lezioni. Lei scoppiò in lacrime, io ero interdetta. Avevo undici anni e alle elementari ero sempre andata bene. Forse non provai nemmeno un particolare dispiacere, del resto non capivo cosa ci fosse dietro quella espulsione, a differenza dei miei genitori che lo comprendevano perfettamente e prevedevano una svolta ancora più crudele.

Povera mamma, per lei fu un’umiliazione tremenda venire in classe, raccogliere tutti i miei libri e quaderni e portarmi via. Io in quei momenti stavo lì a occhi bassi, non capivo perché l’avessero costretta a ricondurmi a casa. Ero terrorizzata all’idea di aver fatto qualcosa di male e temevo una punizione da parte di mio padre, di cui avevo molta soggezione.

Ricordo bene come si svolsero le cose: io ero in classe, il preside arrivò e mi fece uscire in un corridoio dove, davanti a mia madre, spiegò che era arrivata una lettera del Partito Nazionale Fascista e per questo io dovevo lasciare la scuola. Il concetto era che non potevo più stare a contatto con le altre bambine. Di colpo mi sentii come affetta da un morbo contagioso. Quando mi dissero che dovevo lasciare la scuola, credo di non essere neppure rientrata in classe. Mi vergognavo, se l’ho fatto è stato solo per riprendere i miei oggetti scolastici, non ho avuto il tempo di salutare nessuno».

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Le conseguenze delle leggi razziali

1 Décembre 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #la persecuzione degli ebrei

Nel Censimento speciale nazionale degli ebrei, ad impostazione razzista del 22 agosto 1938 vengono censite 58.412 persone aventi per lo meno un genitore ebreo; di esse, 46.656 sono effettivamente ebree (pari a circa l’1 per mille della popolazione della penisola). Nel Consiglio dei ministri del 1-2 settembre 1938 viene approvato  un primo gruppo di decreti antiebraici che contengono tra l’altro provvedimenti immediati di espulsione degli ebrei dalla scuola. Seguono provvedimenti di espulsione degli ebrei dagli impieghi pubblici e dalle libere professioni, limitazione del loro diritto di proprietà.

Nel maggio 1942 viene istituito il lavoro obbligatorio per alcune categorie di ebrei italiani.

 

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Precettazione degli ebrei a scopo di lavoro
 

 

Nel  settembre del 1943 parte il primo convoglio di deportazione di ebrei arrestati in Italia (da Merano) ad opera dei nazisti. Il 16 ottobre 1943 la polizia tedesca attua a Roma una retata di ebrei, la più consistente dell’intero periodo. Due giorni dopo vengono deportate ad Auschwitz 1023 persone. Di questi deportati, solo 17 sopravviveranno.

Il 30 novembre 1943 viene diramato l’Ordine di polizia n. 5 del Ministero dell’interno della RSI, decretante l’arresto degli ebrei di tutte le nazionalità, il loro internamento dapprima in campi provinciali e poi in campi nazionali, il sequestro di tutti i loro beni (alcune settimane dopo verrà disposta la trasformazione dei sequestri in confische definitive; la Rsi si approprierà di terreni, fabbricati, aziende, titoli, mobili, preziosi, merci di famiglie ebraiche). Nella "caccia agli ebrei", i più accaniti sono i fascisti delle bande autonome, la banda Carità a Firenze, la banda Kock a Roma e poi a Milano, la legione Muti, e la Guardia nazionale repubblicana, le Brigate Nere, le SS italiane.

In attuazione dell’ordine del 30 novembre, nel dicembre 1943 viene allestito il campo nazionale di Fossoli, e il 19 e 22 febbraio 1944 partono i primi convogli di deportazione da Fossoli (per Bergen Belsen e Auschwitz) organizzati dalla polizia tedesca. Il campo di Fossoli si rivela quindi come il punto operativo di cerniera tra Rsi e Terzo Reich per la deportazione.

Gli ebrei arrestati e deportati nel nostro Paese furono 6807; gli arrestati e morti in Italia, 322; gli arrestati e scampati in Italia, 451. Esclusi quelli morti in Italia, gli uccisi nella Shoah sono 5791 (fonte Liliana Picciotto Fargion nell'aggiornamento del "Libro della Memoria").

Secondo uno studio di Michele Sarfatti, i perseguitati che non vennero deportati o uccisi in Italia furono circa 35.000. Circa 500 di essi riuscirono a rifugiarsi nell’Italia meridionale; 5500-6000 riuscirono a rifugiarsi in Svizzera; gli altri 29.000 vissero in clandestinità nelle campagne e nelle città. Circa 2000 ebrei, tra i quali Enzo e Emilio Sereni, Vittorio Foa, Carlo Levi, Primo Levi, Umberto Terracini e Leo Valiani, parteciparono attivamente alla Resistenza dando un alto contributo al ritorno della libertà e della democrazia in Italia (1000 inquadrati come partigiani e 1000 in veste di "patrioti"), pari al 4 per cento della popolazione ebraica italiana. Circa 100 ebrei caddero in combattimento o, arrestati, furono uccisi nella penisola o in deportazione; cinque furono insigniti di medaglia d’oro alla memoria.

 

Il "Giorno della Memoria"

Legge 20 luglio 2000, n. 211

"Istituzione del "Giorno della Memoria" in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti"

 

Per ricordare la Shoah, cioè lo sterminio nazista del popolo ebraico e di tutti quanti soffrirono e morirono nei campi di concentramento, nelle prigioni naziste e fasciste di tutta Europa o che furono perseguitati, tormentati, vilipesi, persero il lavoro, la scuola, i diritti civili e poi fucilati, torturati o impiccati, solo per il fatto di essere ebrei, è stato fissato il 27 gennaio "Giorno della Memoria".

Quel giorno, vuole anche ricordare l'infamia delle leggi razziali fasciste, la persecuzione terribile degli ebrei italiani, la loro deportazione prima nel campo di Fossoli e poi in quelli di sterminio in Germania o in Polonia. Un gran numero finirono anche nella Risiera di San Sabba per essere massacrati. Altri furono prelevati nel Ghetto di Roma (più di mille, tra i quali 207 bambini) per finire ad Auschwitz o a Mauthausen. Tornarono solo in sedici. Una cinquantina morirono poi nell'infame carnaio delle Fosse Ardeatine, sempre per l'unica colpa di essere ebrei. Le autorità fasciste furono - e i fatti lo dimostrano - strettamente legate agli occupanti nazisti e fornirono nomi ed elenchi "dei figli di Israele" da portare via per sempre. Altre volte, parteciparono direttamente ai rastrellamenti e alle deportazioni. Certo, ci furono questori coraggiosi, poliziotti, carabinieri e autorità militari che aiutarono gli ebrei a rischio della vita. E altri ebrei furono salvati da tanti singoli italiani indignati per la persecuzione. Poi dalla Chiesa, dai parroci, dalle suore e dagli uomini della Resistenza antifascista.

Copertina del libro “I Giusti d’Italia”: nel libro sono raccontate le storie di italiani non ebrei che durante la Shoah salvarono uno o più ebrei dalla deportazione e dalla morte, rischiando la propria vita e senza trarne alcun vantaggio personale.
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Una delle prime vittime illustri della violenza fascista: Don Giovanni Minzoni

17 Avril 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

 

Don Giovanni Minzoni nacque a Ravenna il 29 Giugno del 1885 da famiglia della media borghesia.

Il piccolo Giovanni crebbe tra l'affetto dei genitori, e di due fratelli e due sorelle, dimostrando viva intelligenza, carattere aperto, franco, espansivo, e soprattutto una bontà non comune.

Dopo gli studi in seminario fu ordinato sacerdote, e celebrò la sua prima messa il 10 settembre del 1909.

Nel 1910, si recò in Argenta (antico e storico paese, in provincia di Ferrara e diocesi di Ravenna), per essere cappellano, alle dipendenze dell'allora arciprete Gioacchino Bezzi. Lasciò Argenta nel 1912 per studiare alla Scuola sociale di Bergamo, dove si diplomò.

Argenta era stata ed era teatro di agitazioni e di conflitti operai. Don Giovanni Minzoni fu ammirato per il suo coraggio e per la sua volontà di collaborazione e di dialogo con il proletariato contadino.

Venuto a morte l'arciprete Bezzi, il 29 gennaio 1916, la popolazione volle suo successore D. Minzoni, che venne eletto con votazione plebiscitaria dai capi famiglia aventi diritto all'elezione dell'arciprete, fra l'esultanza degli Argentani. Ma egli non poté prendere possesso della parrocchia: era già scoppiata prima guerra mondiale

Nell'agosto del 1916, chiamata alle armi la classe 1885, lasciò la parrocchia per andare soldato nella settima compagnia di sanità in Ancona. Malgrado le preghiere insistenti dei parenti e degli amici, chiese di poter svolgere il suo servizio come cappellano tra i giovani militari al fronte e, in un momento molto critico della battaglia del Piave, dimostrò tale coraggio da meritare la medaglia d'argento. Al termine della guerra Don Minzoni ritornò ad Argenta.

Attivo promotore di opere caritatevoli, diede vita a circoli sociali per l'acculturamento delle classi umili e ai primi nuclei del sindacalismo cattolico nella Bassa ferrarese.

Alle numerose iniziative in campo sociale egli aggiunse un'adesione entusiasta al cooperativismo, mettendosi contro il regime fascista che invece sosteneva il corporativismo.

Si oppose alle violenze delle squadre fasciste sostenute dai proprietari terrieri retrivi, capeggiate da Italo Balbo, ostili alle più elementari rivendicazioni salariali dei lavoratori agricoli. Nel 1923 i fascisti di Balbo uccisero ad Argenta il sindacalista socialista Natale Galba; don Minzoni condannò la violenza squadristica attirandosi ripetute minacce ma rifiutando ogni collaborazione col fascismo dilagante.

Il 22 agosto 1923, in un incidente di caccia, venne ucciso un suo parrocchiano, Sante Guerrini padre di tre bambini. Don Minzoni venne informato in sagrestia e, subito dopo la messa, corse dalla giovane vedova che già si trovava in condizioni di bisogno ed ora, senza il capofamiglia, unica fonte di sostentamento, avrebbe visto peggiorare la situazione famigliare. Assicurò alla vedova l'assistenza materiale che le avrebbe consentito di allevare i tre orfani, assumendosi lui la responsabilità del loro mantenimento. La sera del giorno seguente, il 23 agosto 1923, don Minzoni venne aggredito e ucciso nei pressi della canonica a manganellate da alcuni squadristi facenti capo a Balbo. Tutta Argenta vibrò di sdegno contro i fascisti.

I fascisti deplorarono l'accaduto e cercarono di riversarne la responsabilità su elementi dell'estrema sinistra, associandosi al dolore dei cattolici e della famiglia; ma sui muri di Argenta comparve un manifesto che invitava i fascisti a non presentarsi al funerale. Cosa che fecero restando in disparte.

 

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La violenza dei corpi militari della Repubblica Sociale Italiana

17 Juin 2008 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il fascismo

Dopo l'8 settembre 1943 le forze occupanti lo Stato italiano sono due, quelle angloamericane e quelle tedesche, le prime operano con ciò che resta dello Stato legittimo, le seconde si adoperano per creare un'altra unità statale sul territorio italiano: la Repubblica Sociale Italiana. Questa istituzione non viene mai riconosciuta dagli Stati neutrali e si profila come un governo di fatto che interrompe temporaneamente la potestà dello Stato legittimo la cui sovranità è impedita ma non soppressa.

Le condizioni strutturali proprie della Repubblica Sociale Italiana permettono e favoriscono l'incontrollabilità della violenza. Tale istituzione è caratterizzata da un centro debole, incapace di esercitare una piena autorità sui vari corpi come di sorvegliare sulle azioni di questi. Manca di conseguenza un coordinamento tra i corpi militari.

Di fatto ogni corpo militare della Rsi risulta a se stante, con comandanti ambiziosi in aperto conflitto fra loro ed ostili ad ogni limitazione dei propri poteri; anche le divise sono diverse, tanto da accentuare la perdita di identità del fronte fascista repubblicano, identità smarrita, resa in altro modo evidente dalle differenze di comportamento dei vari corpi. Sono quattro i corpi militari dellà Repubblica di Salò: le quattro divisioni (Italia, Littorio, Monterosa, San Marco) dell'esercito di Graziani, la Guardia Nazionale Repubblicana di Renato Ricci, le Brigate nere di Alessandro Pavolini, la Decima Mas del principe Junio Valerio Borghese; quest'ultima si pone inizialmente alle dirette dipendenze operative del comando militare tedesco, ma finisce per assumere le caratteristiche di esercito personale del suo comandante, il quale, secondo rapporti confidenziali inviati a Mussolini, si sarebbe rifiutato di prendere ordini dal Centro arrivando a manifestare, anche apertamente, il proprio disprezzo per i fascisti considerati troppo supini verso i tedeschi. Accanto a questi quattro corpi ve ne sono altri, di dimensioni decisamente minori, noti come squadre autonome; fra queste la più numerosa è la compagnia intitolata a Ettore Muti che, nel momento di maggiore espansione, arriva a contare 2.300 uomini. Le squadre autonome si inseriscono in un processo centrifugo di caotica dispersione delle forze del fascismo repubblicano. Queste squadre finiscono spesso per trovare gerarchi compiacenti che, per accrescere la loro influenza, ne coprono le malefatte garantendo una totale impunità che parte dai furti e arriva alla tortura. Sia le autorità tedesche che quelle della Rsi gradiscono la tortura sistematica svolta da queste squadre. Il ministro degli Interni della Rsi, Guido Buffarini Guidi, oltre a gestire ciò che resta delle forze dell' ordine, è diretto responsabile e protettore di varie squadre autonome, autentiche compagnie di tortura come la banda Koch e la Muti. Il ministro è ben cosciente dei metodi di questi corpi che sono un'occasione di potere per delinquenti e aguzzini, e l'ultimo approdo per i reietti già cacciati da altre formazioni. Queste compagnie sono quasi sempre stanzlali (soltanto la Muti ha un battaglione mobile), le loro sedi, spesso chiamate nelle varie città, «ville tristi» sono autentiche officine di tortura dove con sadico divertimento si sperimentano su uomini e donne, i limiti umani alla sopportazione del dolore. La pratica della tortura diviene diffusa e nota al punto che a Milano è il cardinale Schuster ad agire, in diversi momenti, nei confronti di Mussolini e di don Luigi Corbella, uomo molto vicino alle gerarchie di Salò invitando entrambi a 'muoversi per porre fine all' azione di queste polizie speciali.

L'attività di questi corpi ha inizio tra il settembre 1943 e il gennaio 1944, ma anche le Brigate Nere e la Decima Mas attuano metodicamente le pratiche della tortura. Questo modo di condurre il conflitto è l'esplicito riconoscimento della propria impotenza a combattere in modo diverso il nemico. Le Brigate Nere, che dovevano essere sotto il profilo della struttura organizzativa l’equivalente fascista. del movimento partigiano, non sono quasi mai in grado, al pari degli altri reparti armati di Salò, di sostenere combattimenti con le formazioni della Resistenza. Dalle stesse fonti tedesche affiora il biasimo per l'arrendevolezza dei corpi fascisti quando si trovano attaccati dai partigiani.
da “La lunga liberazione” di Mirco Dondi - Editori Riuniti/l’Unità - aprile 2008

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L’ANPI di Lissone a Sestri Levante

10 Avril 2016 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #varia

L’ANPI di Lissone a Sestri Levante

Sabato 9 aprile 2016, una delegazione dell’ANPI di Lissone ha partecipato a Sestri Levante alle cerimonie per ricordare coloro che persero la vita in combattimento o vennero uccisi dai nazifascisti nell’entroterra ligure, tra cui il lissonese Arturo Arosio.

L’ANPI di Lissone a Sestri Levante

L’intervento di Renato Pellizzoni, presidente dell’ANPI di Lissone

l’assenza che ci unisce” così sta inciso sulla piasta di pietra di Lavagna che l’ANPI di Sestri ha donato a noi, Sezione dell’ANPI di Lissone, lo scorso anno quando una delegazione dell’ANPI di Sestri è venuta a Lissone per l’inaugurazione di una piazza dedicata al partigiano Arturo Arosio.

É anche grazie a voi che siamo riusciti a far dedicare un luogo della nostra città ad Arturo Arosio, uno dei giovani fucilati a Fossa Lupara. E, in occasione del 70° anniversario della Liberazione, l’Amministrazione comunale della nostra città ha intitolato uno spazio verde “Parco della Resistenza” vicino al Largo Arturo Arosio.

Ed oggi c’é un’altra “assenza che ci unisce”: quella di Lucifero, Daniele Massa.

Purtroppo abbiamo appreso della sua scomparsa, solamente dopo i suoi funerali. Per questo, a nome di tutti i cittadini lissonesi iscritti all’ANPI, porgiamo le nostre più sentite condoglianze ai suoi familiari.

Risale all’autunno del 2007, la mia conoscenza con Lucifero. Per la prima volta ci eravamo parlati per telefono quando avevo iniziato delle ricerche sui cittadini lissonesi caduti durante la guerra di Liberazione. Quindici furono i nostri concittadini che persero la vita per mano dei nazifascisti: otto vennero fucilati e sette non tornarono dai lager nazisti.

Fu allora che Lucifero mi invitò a partecipare alle cerimonie per ricordare coloro che persero la vita in combattimento o vennero uccisi dai nazifascisti nell’entroterra ligure. E così dalla primavera del 2008, ogni anno, membri dell’ANPI di Lissone sono stati presenti qui a Santa Margherita di Fossa Lupara.

E nel 2011, in occasione del suo compleanno, avevamo nominato Daniele Massa membro onorario della nostra Sezione.

Con la scomparsa di Lucifero viene a mancare un altro testimone diretto e un protagonista di quei giorni in cui uomini e donne, con il loro impegno e con il loro sacrificio, hanno riscattato la dignità del nostro Paese, contribuendo alla sua liberazione dal fascismo, un regime che lo aveva oppresso per più di vent’anni.

Ha scritto. il partigiano Enzo Biagi, nome di battaglia “il Giornalista”, nel suo libro “I quattordici mesi”:

«Il 25 aprile 1945 l’Italia era finalmente libera dall’occupazione nazista e dal fascismo: Quando ripenso a quel periodo, provo l'orgoglio di chi si sente di essere stato dalla parte giusta».

Ricordando Daniele Massa, desideriamo essere riconoscenti a tutti coloro che in vari modi hanno partecipato alla Resistenza.

Io sono nato quando è entrata in vigore la Costituzione della Repubblica italiana, in un Paese libero e democratico: libertà e democrazia che i miei genitori, la cosiddetta "generazione del Littorio", avevano dovuto conquistare faticosamente.

Non ho vissuto gli orrori della seconda guerra mondiale, una guerra inutile e sciagurata in cui l’Italia era stata trascinata dal regime dittatoriale fascista, che aveva fatto della guerra un dato fondamentale della propria azione politica e dell'educazione dei giovani.

Come viene anche affermato nel documento del prossimo congresso nazionale della nostra associazione, “la memoria” non può che restare ed essere il primo compito dell’ANPI, quello più tradizionale e consono alle sue stesse finalità.

É questo il compito che tocca a noi ed è per questo che oggi siamo venuti qui a Sestri, è questo il significato della nostra presenza.

Sestri Levante alcuni momenti della cerimonia 9 04 2016
Sestri Levante alcuni momenti della cerimonia 9 04 2016
Sestri Levante alcuni momenti della cerimonia 9 04 2016
Sestri Levante alcuni momenti della cerimonia 9 04 2016
Sestri Levante alcuni momenti della cerimonia 9 04 2016
Sestri Levante alcuni momenti della cerimonia 9 04 2016
Sestri Levante alcuni momenti della cerimonia 9 04 2016
Sestri Levante alcuni momenti della cerimonia 9 04 2016
Sestri Levante alcuni momenti della cerimonia 9 04 2016
Sestri Levante alcuni momenti della cerimonia 9 04 2016
Sestri Levante alcuni momenti della cerimonia 9 04 2016
Sestri Levante alcuni momenti della cerimonia 9 04 2016

Sestri Levante alcuni momenti della cerimonia 9 04 2016

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Il premio Angelo d’oro 2018 a Virginia Frisoni

8 Mars 2018 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #varia

Il premio Angelo d’oro 2018 a Virginia Frisoni

 

A Virginia Frisoni, socia onoraria dell’ANPI di Lissone dal 2009, è stato conferito l’ "Angelo d’oro 2018”.

"L'Angelo d'oro è lo strumento che l'Amministrazione Comunale ha a disposizione per affermare ed attestare il doveroso riconoscimento a quanti concittadini si spendono quotidianamente in azioni di rilievo per la nostra città - sottolinea il Sindaco Concettina Monguzzi - anche quest'anno, premiamo persone che negli anni, con dedizione disinteressata, hanno concorso al miglioramento della comunità sotto il profilo sociale e morale, facendosi interpreti dei desideri e sentimenti della cittadinanza".

La motivazione per l’assegnazione del premio a Virginia Frisoni:

Per la "Classe I - benemeriti in ambito scientifico, letterario, artistico, del mondo dello spettacolo e dello sport" il premio è stato attribuito a Virginia Frisoni che, dopo aver frequentato l'Accademia di Belle Arti di Brera, è stata per molti anni apprezzata insegnante di disegno presso varie classi delle scuole medie di Lissone. Insignita di numerosi premi e riconoscimenti per la sua attività artistica, è stata autrice di numerose opere che abbelliscono e impreziosiscono tuttora la nostra città, fra cui le vetrate della Chiesa Parrocchiale del Sacro Cuore, il Monumento ai Caduti Lissonesi della Seconda guerra mondiale al Cimitero, il monumento all'arma dei carabinieri in memoria del Maresciallo Renzi in Piazza De Gasperi e l'opera "La Pace regni nel mondo" recentemente donato dall'ANPI al Comune perché venga collocato nel Parco della Resistenza.

alcune opere di Virginia Frisoni nella città di Lissone
alcune opere di Virginia Frisoni nella città di Lissone
alcune opere di Virginia Frisoni nella città di Lissone
alcune opere di Virginia Frisoni nella città di Lissone

alcune opere di Virginia Frisoni nella città di Lissone

La cerimonia pubblica della consegna si è tenuta sabato 17 marzo alle ore 21 a Palazzo Terragni durante il concerto per la giornata dell'inno nazionale e del tricolore a cura del Corpo Bandistico S.Cecilia di Lissone.

Chi è Virginia Frisoni?

É nata nel 1935 a Milano, vive e lavora a Casatenovo. Ha frequentato il Liceo Artistico a Monza e Scultura all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano.

La sua produzione artistica si può suddividere in due periodi ben distinti:

  • il primo, con opere varie e multiformi come è testimoniato dalle numerosissime partecipazioni ad esposizioni personali e collettive e da premi e riconoscimenti.
  • il secondo periodo, dagli anni Ottanta in poi, è orientato invece quasi esclusivamente verso soggetti e composizioni a carattere sacro: monumenti su commissione, Viae Crucis, dipinti e grafica realizzati con tecniche diverse, dove emerge il bisogno di scoprire la spiritualità attraverso l’impatto e il lavoro con materiali duri come il ferro, il rame, l'acciaio, lo smalto. Nascono in questo periodo i monumenti per le piazze eseguiti appunto con strutture che esprimono il simbolo e lo studio dell’inconscio.

L'archetipo e l’inconscio collettivo diventano il tema principale di molte composizioni matematico astratte, approfondite attraverso l’ampliamento di conoscenze filosofiche religiose e lo studio comparato delle religioni.

Oltre ai suoi meriti artistici, Virginia Frisoni è anche socia onoraria dell’ANPI: nel 2009 le è stata consegnata la tessera di socio onorario in quanto figlia di Agostino Frisoni, membro autorevole del Comitato di Liberazione Nazionale lissonese negli anni dal 1943 – 1945. A lui abbiamo dedicato un libro, dal titolo “La forza immensa di un ideale”.

Grazie ai documenti di Agostino Frisoni, da lui conservati e protetti durante il periodo della clandestinità, e che costituiscono un'eccezionale documentazione storica degli anni dal 1943 al 1945, abbiamo potuto conoscere i principali avvenimenti della Resistenza a Lissone.

alcuni momenti della cerimonia di premiazione
alcuni momenti della cerimonia di premiazione
alcuni momenti della cerimonia di premiazione
alcuni momenti della cerimonia di premiazione
alcuni momenti della cerimonia di premiazione
alcuni momenti della cerimonia di premiazione
alcuni momenti della cerimonia di premiazione
alcuni momenti della cerimonia di premiazione

alcuni momenti della cerimonia di premiazione

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Settembre 1943: la nascita del movimento partigiano in Abruzzo

15 Septembre 2009 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

“Anche qui s'addensano gli sbandati e viene formato particolarmente per opera di alcuni ufficiali effettivi un vasto concentramento nella zona di Teramo con la speranza di mantenerlo intatto fino all'arrivo degli angloamericani.

Su 1600 uomini così raccolti sul massiccio di Bosco Martese, a 30 chilometri dalla città
, solo 320 sono effettivamente gli sbandati, circa 100 i prigionieri evasi, slavi e inglesi, e 1200 sono invece i giovani della città di Teramo che accorrono al primo appello in montagna: fenomeno forse unico in tutto il corso della Resistenza italiana, questo dell'emigrazione compatta della parte più attiva di un'intera popolazione in montagna. L'attacco tedesco che non si fa aspettare (25 settembre) incontra una resistenza accanita malgrado che la colonna nemica si faccia precedere, lungo la via d'avanzata, da un ufficiale superiore italiano detenuto come ostaggio. Liberato con azione fulminea quest'ultimo, i partigiani catturano e fucilano sul posto un maggiore tedesco e infliggono dure perdite a tutta la colonna chiudendo in netto vantaggio la prima giornata di combattimento (57 fra morti e feriti tedeschi contro sei caduti partigiani). Il dispositivo di difesa di Bosco Martese, accuratamente collegato nelle varie postazioni, ha funzionato alla perfezione ed ha un carattere militare evoluto, quel carattere che la Resistenza acquisterà nel suo complesso solo nella piena fase della sua maturità: ci sono persino i mortai e una batteria d'artiglieria da montagna che ha centrato in pieno la colonna nemica. La resistenza si protrae accanita per tutto il 26 e solo all'alba del terzo giorno, quando il nemico, ricevuti forti rinforzi, impegna nella battaglia un peso soverchiante di uomini e mezzi (circa un migliaio di Alpenjager), viene sospesa, dopo aver incendiato il materiale e inchiodato i pezzi d'artiglieria. Si scioglie il concentramento di Bosco Martese, ma scaturisce dal suo seno la maggior parte dei quadri del movimento partigiano della regione e il ricordo di quella prima ed eccezionale
impresa fermenterà fino all'ultimo in Abruzzo come motivo d'orgoglio e d'incitamento.

Inoltre un gruppo di giovani nemmeno ventenni, in gran parte studenti di scuola media, prende la via della montagna già il 22 settembre e si stabilisce sulle pendici del Gran Sasso; ma, pressoché inerme, la banda viene immediatamente sorpresa dai tedeschi e nove ragazzi vengono fucilati quali «franchi tiratori ». Così sulle pendici della Maiella, guidati da un insegnante del liceo di Chieti, altri giovani costituiscono la banda di «Palombaro », anch'essa dissoltasi dopo i primi scontri.

A questi e analoghi tentativi segue poi il vigoroso sforzo organizzativo compiuto dal socialista Ettore Troilo, coadiuvato da alcuni ufficiali e la costituzione del gruppo Patrioti della Maiella, la più consistente formazione partigiana abruzzese e anche la prima a prendere contatto con gli alleati.

È ancora l'Abruzzo a pagare il prezzo della sua prococe resistenza e della prossimità della linea del fronte con un ingente e tuttora pressoché ignorato contributo di sacrifici e di sangue. Il 21 novembre 1943 nel villaggio di Pietransieri - che aveva tardato ad eseguire l'ordine di evacuazione impartito dalle autorità germaniche - irrompono le truppe tedesche e fanno strage di 130 civili, in gran parte donne e bambini.

da “Storia della Resistenza italiana” di Roberto Battaglia Einaudi 1964
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