I fiori nelle Fiandre
Flanders Fields" è una poesia di guerra a forma di rondeau, scritta durante la prima guerra mondiale dal medico canadese tenente colonnello John McCrae. Fu ispirato a scriverlo il 3 maggio 1915, dopo aver presieduto il funerale dell'amico e commilitone tenente Alexis Helmer, morto nella seconda battaglia di Ypres.
Nei campi delle Fiandre spuntano i papaveri
tra le croci, fila dopo fila,
che ci segnano il posto; e nel cielo
le allodole, cantando ancora con coraggio,
volano appena udite tra i cannoni, sotto.
Noi siamo i Morti. Pochi giorni fa
eravamo vivi, sentivamo l'alba, vedevamo
risplendere il tramonto, amavamo ed eravamo amati.
Ma ora giacciamo nei campi delle Fiandre.
Riprendete voi la lotta col nemico:
a voi passiamo la torcia, con le nostre
mani cadenti, e sian le vostre a tenerla alta.
e se non ci ricorderete, noi che moriamo,
non dormiremo anche se i papaveri
cresceranno sui campi delle Fiandre
Dormi sepolto in un campo di grano Non è la rosa non è il tulipano Che ti fan veglia dall'ombra dei fossi Ma sono mille papaveri rossi…
Le donne e le conquiste dal dopoguerra ad oggi
La Costituzione repubblicana aveva stabilito l’uguaglianza formale fra i sessi, ma la conquista dei diritti civili si intrecciava da parte delle donne con la percezione, che divenne via via più nitida negli anni Sessanta e Settanta, di aver raggiunto diritti non completi, di avere di fronte consuetudini sociali e culturali che ancora non riconoscevano loro una reale parità.
Dal dopoguerra ad oggi, la condizione sociale e giuridica delle donne si è lentamente ma radicalmente modificata.
Ecco alcune tappe fondamentali di tale cammino:
1948
Entra in vigore la Costituzione. Gli articoli 3, 29, 31,37,48 e 51 sanciscono la parità tra uomini e donne.
Angela Maria Cingolani Guidi è la prima donna sottosegretario (Industria e commercio con delega all'artigianato).
1950
Varata la legge 26 agosto 1950, n. 860, «Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri».
1956
Le donne possono accedere alle giurie popolari col limite massimo di tre su sei (la norma rimarrà in vigore fino al 1978) e ai tribunali minorili.
Le funzioni riconosciute alle donne sono ancora quelle legate alla figura materna. Il loro intervento viene giudicato opportuno in quei casi in cui i problemi vadano risolti, «più che con l'applicazione di fredde formule giuridiche con il sentimento e la conoscenza del fanciullo che è proprio della donna».
1958
La legge Merlin chiude definitivamente le case di tolleranza: legge 20 febbraio 1958, n. 75, «Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui».
1959
Viene istituito il Corpo di polizia femminile.
1963
Il matrimonio non è più ammesso come causa di licenziamento: legge 9 gennaio 1963, n. 7, «Divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio e modifiche della legge 26 agosto 1950, n. 860».
Marisa Cinciari Rodano è eletta vicepresidente della Camera. Le donne sono ammesse alla magistratura: legge 9 febbraio 1963, n. 66, «Ammissione della donna ai pubblici uffici ed alle professioni».
Un ulteriore passo avanti nell'effettiva attuazione dell'art.51 della Costituzione: le donne possono accedere a tutti i pubblici uffici senza distinzione di carriere né limitazioni di grado.
1968
L'adulterio femminile non è più considerato reato.
L'art. 559 del Codice penale recitava: «La moglie adultera è punita con la reclusione fino ad un anno. Con la stessa pena è punito il correo». Per il marito non esisteva nulla del genere: la disparità di trattamento non rispettava le norme fondamentali della Costituzione. Con due sentenze del 19 dicembre 1968, la Corte costituzionale abroga l'articolo sul diverso trattamento dell'adulterio maschile e femminile e quello analogo del Codice penale.
1970
Viene approvata la legge sul divorzio: legge 1° dicembre 1970, n. 898, «Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio».
L'introduzione del divorzio in Italia era stata collegata alla questione del voto alle donne. In sede costituente, il PCI, per una scelta di fondo sfociata nell'approvazione dell'art. 7, non aveva sollevato la questione. La Commissione dei 75 avrebbe voluto includere l'indissolubilità del matrimonio nel testo della carta costituzionale, ma, dopo un'aspra battaglia in aula, la parola «indissolubile» non era stata inserita, bocciata con un esiguo margine di voti.
Nel 1965, il socialista Loris Fortuna avanzò la prima proposta di legge, sulle orme del collega Renato Sansone, che negli anni Cinquanta aveva proposto a più riprese e senza successo una legge di «piccolo divorzio», per i casi estremi di ergastolani, malati di mente, scomparsi, divorziati all'estero.
Dopo l'approvazione della nuova normativa, nel 1974 sarebbe stato indetto un referendum abrogativo, ma in seguito alla vittoria del fronte del NO col 59% dei voti la legge sarebbe rimasta in vigore.
1971
La Corte costituzionale cancella l'articolo del Codice civile che punisce la propaganda di anticoncezionali.
Dall'inizio degli anni Sessanta la pillola contraccettiva era in commercio in molti Paesi europei, ma nel 1968 la Chiesa condannò aspramente la contraccezione. Nel 1969 la pillola cominciò, tuttavia, a essere venduta anche in Italia, come farmaco per le disfunzioni del ciclo mestruale. Nel 1971 la Corte costituzionale, dopo un'aspra battaglia, abrogò l'art. 535 del Codice penale che vietava la propaganda di qualsiasi mezzo contraccettivo e puniva i trasgressori col carcere.
Viene approvata la legge sulle lavoratrici madri: legge 30 dicembre 1971, n. 1204, «Tutela delle lavoratrici madri».
Sono istituiti gli asili nido comunali: legge 6 dicembre 1971, n. 1044, «Piano quinquennale per l'istituzione di asili-nido comunali con il concorso dello Stato».
1975
Riforma del diritto di famiglia: legge 19 maggio 1975, n. 151, «Riforma del diritto di famiglia».
Fino a questa riforma, il peso dell'educazione dei figli gravava, di fatto, sulle madri, ma tale impegno non aveva un adeguato riconoscimento giuridico. La patria potestà spettava ad entrambi i genitori, ma il suo esercizio toccava al padre, secondo l'art. 316 del Codice civile.
Col nuovo diritto di famiglia, la legge riconosce parità giuridica tra i coniugi che hanno uguali diritti e responsabilità e attribuisce ad entrambi la patria potestà.
1976
Per la prima volta una donna, Tina Anselmi, viene nominata ministro (Lavoro e previdenza sociale).
1977
È riconosciuta la parità di trattamento tra donne e uomini nel campo del lavoro: legge 9 dicembre 1977 n. 903, «Parità fra uomini e donne in materia di lavoro».
1978
Viene approvata la legge sull'aborto.
Nel 1974 i radicali avevano iniziato una campagna per un referendum al fine di abrogare le norme che penalizzavano l'aborto. Gli articoli dal 546 al 551 del Codice penale stabilivano, infatti, che la donna che si procurava un aborto dovesse essere punita con la reclusione da uno a quattro anni (ma, se l'aborto era effettuato per "salvare l'onore", era prevista una riduzione, che andava da un terzo alla metà della pena).
Dopo l'approvazione della legge, un referendum abrogativo del maggio del 1981 non avrebbe avuto successo.
1979
Nilde Jotti è la prima donna presidente della Camera.
1981
Il motivo d'onore non è più attenuante nell'omicidio del coniuge infedele.
1983
La Corte costituzionale stabilisce la parità tra padri e madri circa i congedi dal lavoro per accudire i figli.
1984
Presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri è costituita la Commissione nazionale per la realizzazione delle pari opportunità, presieduta da Elena Marinucci.
1986
La commissione nazionale per la parità uomo e donna elabora il «Programma azioni positive»: aziende e sindacati devono tutelare accesso, carriera e retribuzioni femminili.
1989
Le donne sono ammesse alla magistratura militare.
1991
Legge 10 aprile 1991, n. 125, «Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro».
La legge dovrebbe essere in grado di intervenire nel rimuovere le discriminazioni e valorizzare la presenza e il lavoro delle donne nella società. Purtroppo, è ancora poco applicata.
1992
Legge, 25 febbraio 1992, n. 215, «Azioni positive per l'imprenditorialità femminile».
La legge sull'imprenditoria femminile favorisce la nascita di imprese composte per il 60% da donne, società di capitali gestiti per almeno 2/3 da donne e imprese individuali.
1993
Con la legge 25 marzo 1993, n. 81 per la prima volta vengono introdotte le "quote rosa" in merito alle elezioni dei rappresentanti degli enti locali.
Si stabilisce che per le elezioni regionali e comunali, i candidati dello stesso sesso non possano essere inseriti nelle liste in misura superiore ai due terzi: ciò riserva, di fatto, un terzo dei posti disponibili al sesso sottorappresentato (cioè le donne). Per le elezioni nazionali, viene introdotta l'alternativa obbligatoria di uomini e donne per il recupero proporzionale ai fini della designazione alla Camera dei deputati.
Nel 1995 questa serie di interventi legislativi è stata annullata con la sentenza n. 422 della Corte costituzionale, avendo il giudice stabilito che, in materia elettorale, debba trovare applicazione solo il principio di uguaglianza formale e che qualsiasi disposizione tendente ad introdurre riferimenti al sesso dei rappresentanti, anche se formulata in modo neutro, sia in contrasto con tale principio.
1996
La legge 15 febbraio 1996, n. 66, «Norme contro la violenza sessuale», punisce lo stupro come delitto contro la persona e non contro la morale come in precedenza.
Il governo nomina un ministro per le pari opportunità, Anna Finocchiaro.
2000
Legge 8 marzo 2000, n. 53, «Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città».
Sia il padre che la madre possono chiedere l'aspettativa, da sei a dieci mesi, entro gli otto anni di vita del bambino. La cura dei figli smette di essere, dal punto di vista legislativo, esclusiva prerogativa delle madri.
2003
Legge costituzionale 30 maggio 2003, n. l, «Modifica dell'art. 51 della Costituzione».
L’art. 51 della Costituzione («Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizione di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge») viene modificato, con l'aggiunta: «A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini».
2004
La legge sulle elezioni dei membri del Parlamento europeo introduce una norma in materia di "pari opportunità": legge 8 aprile 2004, n. 90, «Norme in materia di elezioni dei membri del Parlamento europeo e altre disposizioni inerenti ad elezioni da svolgersi nell'anno 2004».
L’art. 3 prescrive che le liste circoscrizionali, aventi un medesimo contrassegno, debbano essere formate in modo che nessuno dei due sessi possa essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati.
2019
La legge n.69 prevede, a fronte di notizie di reato relative a delitti di violenza domestica e di genere: che la polizia giudiziaria, acquisita la notizia di reato, riferisca immediatamente al pubblico ministero, anche in forma orale; alla comunicazione orale seguirà senza ritardo quella scritta.
Le donne e le conquiste dal dopoguerra ad oggi
La Costituzione repubblicana aveva stabilito l’uguaglianza formale fra i sessi, ma la conquista dei diritti civili si intrecciava da parte delle donne con la percezione, che divenne via via più nitida negli anni Sessanta e Settanta, di aver raggiunto diritti non completi, di avere di fronte consuetudini sociali e culturali che ancora non riconoscevano loro una reale parità.
Dalla fine degli anni Sessanta il cambiamento dell’idea stessa di politica diffuso dai movimenti giovanili e studenteschi iniziò a investire anche la sfera del privato, modificando le forme di partecipazione alla vita pubblica. Per settori consistenti della popolazione femminile, soprattutto nelle grandi città, l’adesione alla mobilitazione del '68 significò in molti casi una forma di iniziazione alla politica. Il bisogno di impegnarsi attivamente fu anche un modo per dar voce a istanze di emancipazione e di liberazione che fino a quel momento erano state scarsamente recepite a livello istituzionale.
Gli anni Settanta furono il periodo in assoluto più importante per il movimento femminista italiano, che dovette fronteggiare sia la crisi del Paese, sia una difficile modernizzazione. Questi anni, grazie anche e, forse, soprattutto, alle battaglie condotte dalle donne, segnarono importanti vittorie civili, sociali e culturali. In Italia, dal dopoguerra ad oggi, la condizione sociale e giuridica delle donne si è infatti lentamente ma radicalmente modificata.
Ecco alcune tappe fondamentali di tale cammino:
1948
Entra in vigore la Costituzione. Gli articoli 3, 29, 31,37,48 e 51 sanciscono la parità tra uomini e donne.
Angela Maria Cingolani Guidi è la prima donna sottosegretario (Industria e commercio con delega all'artigianato).
1950
Varata la legge 26 agosto 1950, n. 860, «Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri».
1956
Le donne possono accedere alle giurie popolari col limite massimo di tre su sei (la norma rimarrà in vigore fino al 1978) e ai tribunali minorili.
Le funzioni riconosciute alle donne sono ancora quelle legate alla figura materna. Il loro intervento viene giudicato opportuno in quei casi in cui i problemi vadano risolti, «più che con l'applicazione di fredde formule giuridiche con il sentimento e la conoscenza del fanciullo che è proprio della donna».
1958
La legge Merlin chiude definitivamente le case di tolleranza: legge 20 febbraio 1958, n. 75, «Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui».
1959
Viene istituito il Corpo di polizia femminile.
1963
Il matrimonio non è più ammesso come causa di licenziamento: legge 9 gennaio 1963, n. 7, «Divieto di licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio e modifiche della legge 26 agosto 1950, n. 860».
Marisa Cinciari Rodano è eletta vicepresidente della Camera. Le donne sono ammesse alla magistratura: legge 9 febbraio 1963, n. 66, «Ammissione della donna ai pubblici uffici ed alle professioni».
Un ulteriore passo avanti nell'effettiva attuazione dell'art.51 della Costituzione: le donne possono accedere a tutti i pubblici uffici senza distinzione di carriere né limitazioni di grado.
1968
L'adulterio femminile non è più considerato reato.
L'art. 559 del Codice penale recitava: «La moglie adultera è punita con la reclusione fino ad un anno. Con la stessa pena è punito il correo». Per il marito non esisteva nulla del genere: la disparità di trattamento non rispettava le norme fondamentali della Costituzione. Con due sentenze del 19 dicembre 1968, la Corte costituzionale abroga l'articolo sul diverso trattamento dell'adulterio maschile e femminile e quello analogo del Codice penale.
1970
Viene approvata la legge sul divorzio: legge 1° dicembre 1970, n. 898, «Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio».
L'introduzione del divorzio in Italia era stata collegata alla questione del voto alle donne. In sede costituente, il PCI, per una scelta di fondo sfociata nell'approvazione dell'art. 7, non aveva sollevato la questione. La Commissione dei 75 avrebbe voluto includere l'indissolubilità del matrimonio nel testo della carta costituzionale, ma, dopo un'aspra battaglia in aula, la parola «indissolubile» non era stata inserita, bocciata con un esiguo margine di voti.
Nel 1965, il socialista Loris Fortuna avanzò la prima proposta di legge, sulle orme del collega Renato Sansone, che negli anni Cinquanta aveva proposto a più riprese e senza successo una legge di «piccolo divorzio», per i casi estremi di ergastolani, malati di mente, scomparsi, divorziati all'estero.
Dopo l'approvazione della nuova normativa, nel 1974 sarebbe stato indetto un referendum abrogativo, ma in seguito alla vittoria del fronte del NO col 59% dei voti la legge sarebbe rimasta in vigore.
1971
La Corte costituzionale cancella l'articolo del Codice civile che punisce la propaganda di anticoncezionali.
Dall'inizio degli anni Sessanta la pillola contraccettiva era in commercio in molti Paesi europei, ma nel 1968 la Chiesa condannò aspramente la contraccezione. Nel 1969 la pillola cominciò, tuttavia, a essere venduta anche in Italia, come farmaco per le disfunzioni del ciclo mestruale. Nel 1971 la Corte costituzionale, dopo un'aspra battaglia, abrogò l'art. 535 del Codice penale che vietava la propaganda di qualsiasi mezzo contraccettivo e puniva i trasgressori col carcere.
Viene approvata la legge sulle lavoratrici madri: legge 30 dicembre 1971, n. 1204, «Tutela delle lavoratrici madri».
Sono istituiti gli asili nido comunali: legge 6 dicembre 1971, n. 1044, «Piano quinquennale per l'istituzione di asili-nido comunali con il concorso dello Stato».
1975
Riforma del diritto di famiglia: legge 19 maggio 1975, n. 151, «Riforma del diritto di famiglia».
Fino a questa riforma, il peso dell'educazione dei figli gravava, di fatto, sulle madri, ma tale impegno non aveva un adeguato riconoscimento giuridico. La patria potestà spettava ad entrambi i genitori, ma il suo esercizio toccava al padre, secondo l'art. 316 del Codice civile.
Col nuovo diritto di famiglia, la legge riconosce parità giuridica tra i coniugi che hanno uguali diritti e responsabilità e attribuisce ad entrambi la patria potestà.
1976
Per la prima volta una donna, Tina Anselmi, viene nominata ministro (Lavoro e previdenza sociale).
1977
È riconosciuta la parità di trattamento tra donne e uomini nel campo del lavoro: legge 9 dicembre 1977 n. 903, «Parità fra uomini e donne in materia di lavoro».
1978
Viene approvata la legge sull'aborto.
Nel 1974 i radicali avevano iniziato una campagna per un referendum al fine di abrogare le norme che penalizzavano l'aborto. Gli articoli dal 546 al 551 del Codice penale stabilivano, infatti, che la donna che si procurava un aborto dovesse essere punita con la reclusione da uno a quattro anni (ma, se l'aborto era effettuato per "salvare l'onore", era prevista una riduzione, che andava da un terzo alla metà della pena).
Dopo l'approvazione della legge, un referendum abrogativo del maggio del 1981 non avrebbe avuto successo.
1979
Nilde Jotti è la prima donna presidente della Camera.
1981
Il motivo d'onore non è più attenuante nell'omicidio del coniuge infedele.
1983
La Corte costituzionale stabilisce la parità tra padri e madri circa i congedi dal lavoro per accudire i figli.
1984
Presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri è costituita la Commissione nazionale per la realizzazione delle pari opportunità, presieduta da Elena Marinucci.
1986
La commissione nazionale per la parità uomo e donna elabora il «Programma azioni positive»: aziende e sindacati devono tutelare accesso, carriera e retribuzioni femminili.
1989
Le donne sono ammesse alla magistratura militare.
1991
Legge 10 aprile 1991, n. 125, «Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna nel lavoro».
La legge dovrebbe essere in grado di intervenire nel rimuovere le discriminazioni e valorizzare la presenza e il lavoro delle donne nella società. Purtroppo, è ancora poco applicata.
1992
Legge, 25 febbraio 1992, n. 215, «Azioni positive per l'imprenditorialità femminile».
La legge sull'imprenditoria femminile favorisce la nascita di imprese composte per il 60% da donne, società di capitali gestiti per almeno 2/3 da donne e imprese individuali.
1993
Con la legge 25 marzo 1993, n. 81 per la prima volta vengono introdotte le "quote rosa" in merito alle elezioni dei rappresentanti degli enti locali.
Si stabilisce che per le elezioni regionali e comunali, i candidati dello stesso sesso non possano essere inseriti nelle liste in misura superiore ai due terzi: ciò riserva, di fatto, un terzo dei posti disponibili al sesso sottorappresentato (cioè le donne). Per le elezioni nazionali, viene introdotta l'alternativa obbligatoria di uomini e donne per il recupero proporzionale ai fini della designazione alla Camera dei deputati.
Nel 1995 questa serie di interventi legislativi è stata annullata con la sentenza n. 422 della Corte costituzionale, avendo il giudice stabilito che, in materia elettorale, debba trovare applicazione solo il principio di uguaglianza formale e che qualsiasi disposizione tendente ad introdurre riferimenti al sesso dei rappresentanti, anche se formulata in modo neutro, sia in contrasto con tale principio.
1996
La legge 15 febbraio 1996, n. 66, «Norme contro la violenza sessuale», punisce lo stupro come delitto contro la persona e non contro la morale come in precedenza.
Il governo nomina un ministro per le pari opportunità, Anna Finocchiaro.
2000
Legge 8 marzo 2000, n. 53, «Disposizioni per il sostegno della maternità e della paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città».
Sia il padre che la madre possono chiedere l'aspettativa, da sei a dieci mesi, entro gli otto anni di vita del bambino. La cura dei figli smette di essere, dal punto di vista legislativo, esclusiva prerogativa delle madri.
2003
Legge costituzionale 30 maggio 2003, n. l, «Modifica dell'art. 51 della Costituzione».
L’art. 51 della Costituzione («Tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizione di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge») viene modificato, con l'aggiunta: «A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini».
2004
La legge sulle elezioni dei membri del Parlamento europeo introduce una norma in materia di "pari opportunità": legge 8 aprile 2004, n. 90, «Norme in materia di elezioni dei membri del Parlamento europeo e altre disposizioni inerenti ad elezioni da svolgersi nell'anno 2004».
L’art. 3 prescrive che le liste circoscrizionali, aventi un medesimo contrassegno, debbano essere formate in modo che nessuno dei due sessi possa essere rappresentato in misura superiore ai due terzi dei candidati.
2019
La legge n.69 prevede, a fronte di notizie di reato relative a delitti di violenza domestica e di genere: che la polizia giudiziaria, acquisita la notizia di reato, riferisca immediatamente al pubblico ministero, anche in forma orale; alla comunicazione orale seguirà senza ritardo quella scritta.
L'emancipazione femminile: il lungo cammino verso il voto delle donne
La decisione di ammettere le donne al voto venne presa formalmente a poco più di due mesi dalla conclusione del conflitto, ma essa era maturata fin dal 1944. Soprattutto i leader dei più importanti partiti di massa, DC e PCI, erano infatti ormai convinti, nonostante le resistenze della base, della necessità di un provvedimento che avrebbe incluso nella dialettica tra cittadini e forze politiche una componente essenziale alla vita del Paese e avrebbe inevitabilmente modificato contenuti e metodi dell’organizzazione del consenso.
Alcune formazioni di punta del movimento femminile fecero sentire la loro voce, oltre che per sollecitare le cose, per ribadire che un simile risultato non si configurava nei termini di una pura e semplice concessione. Nell’ottobre 1944 l’UDI, insieme a due associazioni che avevano alle spalle una storia gloriosa, e cioè l’Alleanza femminile pro suffragio e la FILDIS (Federazione italiana laureate e diplomate istituti superiori), inviò un promemoria al capo del governo Bonomi, affinché l’estensione alle donne del voto e dell’eleggibilità fosse tenuta presente nell’elaborazione delle leggi elettorali da introdurre per le future consultazioni. Nello stesso mese, più esattamente il 25, sempre l’UDI indisse a Roma un incontro con le esponenti di DC, PRI, PCI, PSIUP, Partito d'Azione, PLI, Sinistra cristiana, Democrazia del lavoro e delle due associazioni già nominate. Dalla riunione nacque un Comitato pro voto, che il 27 sottopose un promemoria al CLN nazionale. Il 15 novembre un gruppo di donne presentò una mozione al CLN e nello stesso mese il Comitato pro voto si fece promotore di altre iniziative, come la stampa di un opuscolo e la stesura di una petizione, diffusa dal Comitato di iniziativa dell’UDI, per raccogliere il maggior numero possibile di firme.
Parallelamente venne indetta una settimana nazionale di mobilitazione, che in realtà non ebbe luogo in seguito alle decisioni adottate in seno al governo. In un’Italia ancora divisa in due, con il Centro-Sud liberato e la Repubblica di Salò nel Nord occupato dai tedeschi, a Roma su richiesta di De Gasperi e Togliatti la questione venne infatti esaminata dal Consiglio dei ministri il 24 gennaio 1945. Il 30 si ebbe l’approvazione, ratificata con il decreto luogotenenziale n. 23, datato 1° febbraio 1945, un breve testo il quale stabiliva all’art. 2 che, vista l’imminente formazione nei Comuni delle liste elettorali, nelle suddette si iscrivessero in liste separate le elettrici.
Decreto luogotenenziale 1° febbraio 1945, n. 23
DECRETO LEGISLATIVO LUOGOTENENZIALE 1° febbraio 1945
Estensione alle donne del diritto di voto
UMBERTO DI SAVOIA
PRINCIPE DI PIEMONTE
LUOGOTENENTE GENERALE DEL REGNO
In virtù dell'autorità a Noi delegata;
Visto il decreto legislativo Luogotenenziale 28 settembre 1944, n. 247, relativo alla compilazione delle liste elettorali;
Visto il decreto-legge Luogotenenziale 23 giugno 1914, n. 151;
Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri;
Sulla proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, Primo Ministro Segretario di Stato e Ministro per l'interno, di concerto con il Ministro per la grazia e giustizia;
Abbiamo sanzionato e promulgato quanto segue:
Art. 1
Il diritto di voto è esteso alle donne che si trovino nelle condizioni previste dagli articoli 1 e 2 del testo unico della legge elettorale politica, approvato con R. decreto 2 settembre 1919 n. 1495.
Art. 2
È ordinata la compilazione delle liste elettorali femminili in tutti i Comuni. Per la compilazione di tali liste, che saranno tenute distinte da quelle maschili, si applicano le disposizioni del decreto legislativo Luogotenenziale 28 settembre 1944 n. 247, e le relative norme di attuazione approvate con decreto del Ministro per l'interno in data 24 ottobre 1944.
Art. 3
Oltre quanto stabilito dall'art. 2 del decreto del Ministro per l'interno in data 24 ottobre 1944, non possono essere iscritte nelle liste elettorali le donne indicate nell'art. 354 del Regolamento per l'esecuzione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato con R. decreto 6 maggio 1940 n. 635.
Art. 4
Il presente decreto entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del Regno.
Ordiniamo, a chiunque spetti, di osservare il presente decreto e di farlo osservare come legge dello Stato.
Data a Roma, addì 1° febbraio 1945
UMBERTO DI SAVOIA
BONOMI - TUPINI
Paura del voto femminile
Alla vigilia delle prime elezioni in cui anche le donne vennero chiamate ad esprimere il proprio parere, nessuna forza politica poté ignorare quale enorme importanza avrebbe assunto l’elettorato femminile, che, con 14.610.845 persone che acquisirono il diritto a recarsi per la prima volta in una cabina elettorale, costituiva circa il 53% del totale.
De Gasperi e Togliatti erano fondamentalmente concordi sull’estensione del suffragio, ma dovettero scontrarsi con la diffidenza che il provvedimento suscitò, per motivi diversi, all’interno dei loro partiti.
Nel PCI i dubbi circa i risultati delle urne erano legati al timore che le donne si lasciassero troppo influenzare dai loro parroci e dalla Chiesa.
Le perplessità democristiane erano invece legate alla possibilità che, con la nuova partecipazione alla vita politica, esse si allontanassero progressivamente dai valori tradizionali, incrinando così l’unità della famiglia.
Per Nenni e per i socialisti il voto femminile era sicuramente un fatto positivo, ma potenzialmente pericoloso. Il Partito Liberale, il Partito Repubblicano e il Partito d'Azione si mostrarono a volte indifferenti, a volte diffidenti verso il voto alle donne, per timore che risultasse un vantaggio per i partiti di massa.
In più casi venne addirittura rinfacciato alle italiane di essere arrivate al diritto di voto senza aver fatto gran che per ottenerlo, di non aver avuto un movimento suffragista veramente combattivo e consapevole, come ad esempio quello inglese, e molti ribadirono che le donne erano assolutamente impreparate a compiere il loro dovere elettorale.
Alle urne
In Italia le donne cominciarono ad esercitare il diritto di voto a partire dalle elezioni amministrative che si tennero in tutta la Penisola fra marzo e aprile 1946. Il 2 giugno dello stesso anno si recarono di nuovo alle urne per il referendum monarchia-repubblica e l’elezione dell’Assemblea Costituente.
"IN ITALIA SI VOTA
CASTELGANDOLFO - Per fa prima volta dopo ventiquattro anni si sono avute libere elezioni in Italia. Tanto nelle città come nei piccoli centri tutti hanno votato in un ambiente assolutamente calmo. In molti casi le donne, specialmente le contadine, sono state le prime a recarsi alle urne". L'Europeo, 25 marzo 1946
Il 2 giugno 1946, su 556 membri totali vennero elette 21 donne all'Assemblea Costituente.
La DC, che aveva ottenuto il 35,2% dei voti e 207 costituenti, aveva fra i suoi rappresentanti 9 donne.
Il PSIUP aveva il 20,7%, 115 seggi e 2 donne. Il PCI ottenne il 19% dei consensi, 104 costituenti e fra di essi 9 donne.
40 seggi andarono a vari gruppi moderati, 30 seggi al Partito dell’Uomo Qualunque, di cui uno assegnato a una donna. 23 seggi furono assegnati ai repubblicani e 7 al Partito d'Azione: fra le loro fila nessuna donna.
Le ventuno costituenti appartenevano prevalentemente alla classe media. Tredici erano laureate, soprattutto in materie umanistiche; c'erano poi un’impiegata e una casalinga; due delle comuniste erano state operaie. Avevano nel complesso una buona cultura e provenivano, per la maggior parte dal Centro-Nord del Paese, dove lo sviluppo economico era stato più precoce e dove si era vissuta la Resistenza.
I lavori dell’Assemblea Costituente
L’Assemblea Costituente si riunì per la prima volta nel Palazzo di Montecitorio il 25 giugno 1946. Nel corso di quella seduta venne eletto presidente dell’Assemblea Giuseppe Saragat, in seguito dimissionario e sostituito, l’8 febbraio 1947, da Umberto Terracini.
Il 28 giugno 1946 l’Assemblea procedette all’elezione del Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, il quale avrebbe esercitato le sue funzioni fino a quando non fosse stato nominato il Capo dello Stato a norma della Costituzione che sarebbe stata approvata dall’Assemblea.
Ai fini di un più efficiente svolgimento del proprio lavoro, l’Assemblea deliberò la nomina di una Commissione per la Costituzione, composta di 75 membri scelti dal presidente sulla base delle designazioni dei vari gruppi parlamentari in modo da garantire la partecipazione della totalità delle forze politiche, con l’incarico di predisporre un progetto di Costituzione da sottoporre al plenum dell’Assemblea. La Commissione, nominata il 19 luglio 1946 e presieduta da Meuccio Ruini, procedette nei suoi lavori articolandosi in tre sottocommissioni: la prima sui diritti e doveri dei cittadini; la seconda sull’ordinamento costituzionale della Repubblica (divisa a sua volta in due sezioni, per il potere esecutivo e il potere giudiziario, più un comitato di dieci deputati per la redazione di un progetto articolato sull’ordinamento regionale); la terza sui diritti e doveri economico-sociali.
Le donne fra i 75 membri della Commissione furono:
Maria Federici, per la DC, Lina Merlin, per il PSl, Teresa Noce e Nilde lotti, per il PCI; il 6 febbraio 1947 si aggiunse Angela Gotelli (DC).
Una volta terminato il lavoro delle sottocommissioni, la Commissione dei 75 affidò l’incarico di redigere un progetto organico e unitario ad un comitato di redazione, composto di 18 membri. Il comitato approntò il progetto di Costituzione e lo sottopose alla Commissione per la Costituzione, che approvò a sua volta il testo con lievi modifiche e lo presentò il 31 gennaio 1947 all’Assemblea Costituente. Il comitato di redazione ebbe anche l’incarico di rappresentare la Commissione dei 75 durante la discussione presso l’Assemblea plenaria, che si svolse dal 4 marzo al 20 dicembre 1947; il testo definitivo venne presentato all’Assemblea che lo votò il 22 dicembre 1947. La Costituzione venne promulgata il 27 dicembre dal Capo provvisorio dello Stato ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948.
La parità tra uomini e donne è affermata in particolare negli articoli 3, 29, 31, 37, 48 e 51 della Costituzione italiana.
Art. 3
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Art. 29
La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.
Art. 31
La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose.
Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo.
Art. 37
La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.
La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato.
La Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione.
Art. 48
Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età.
Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.
Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge.
Art. 51
Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.
La legge può, per l’ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica.
Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario alloro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro.
La Resistenza delle donne 1943-1945
Il contributo del genio femminile alla Resistenza
La gratuità del servizio alla Resistenza probabilmente allora non era così evidente, ma risulta essere un messaggio ancora oggi estremamente attuale. Offrire un contributo al bene comune (allora era la lotta per la libertà) senza avere la certezza e l'aspettativa di poter trarre nessun altro vantaggio che la possibilità di offrire una società più giusta: un atteggiamento che allora scattò in modo quasi automatico in molti, un atteggiamento che diventa provocazione per il nostro tempo, soprattutto di fronte a un deficit di partecipazione e di voglia di occuparsi delle cose di tutti. Un'altra piccola annotazione che potrebbe ben descrivere il contributo del genio femminile alla Resistenza. Le donne, allora come oggi, sanno portare concretezza e attenzione ai piccoli particolari che sono decisivi per la buona riuscita di qualsiasi azione. La concretezza appartiene soprattutto alle donne ed è merce rara in un universo maschile che rischia di trascurare le piccole cose solo apparentemente inutili.
Il riconoscimento dell’impegno
Dopo la Liberazione la qualifica di partigiano fu riconosciuta a chi aveva portato le armi per almeno tre mesi e aveva compiuto almeno tre azioni di guerra o sabotaggio (o almeno aveva fatto tre mesi di carcere o sei mesi di lavoro nelle strutture logistiche). Poste così le cose, era chiaro che un grande numero di donne resistenti veniva messo fuori gioco e che - salvo casi eccezionali - per loro si sarebbe potuto parlare solo di «contributo» dato alla Resistenza, un termine che già contiene in sé un senso di inferiorità e di dipendenza. Come hanno mostrato ormai diverse studiose, esiste un forte divario tra il numero di donne che a vario titolo si opposero al nazifascismo e il numero di quante si videro effettivamente riconosciuto il lavoro svolto. Ciò non toglie che a livello nazionale furono riconosciute a quel tempo circa 35.000 partigiane e 70.000 appartenenti ai Gruppi di Difesa della Donna, una cifra piuttosto consistente. Di loro, 4653 furono arrestate, torturate, condannate; 2750 deportate e 623 fucilate o cadute in combattimento. Alle donne furono assegnate 19 medaglie d'oro al valore militare, di cui 15 alla memoria.
La memoria della Resistenza al femminile è stata poi limitata dal silenzio di tante protagoniste di quegli anni duri. Un silenzio che per molte donne è stato una scelta consapevole. Complessivamente parlando, però, il silenzio delle donne è stato quello più «assordante», per vari motivi: l'abitudine alla sottomissione all'uomo e al capo famiglia, il timore di passare per una «poco di buono» e per una donna rotta a chissà quali avventure, o al contrario l'idea di aver fatto solo il proprio dovere o comunque nulla di eccezionale in un tempo come quello della guerra.
Le donne furono presenti in tutti gli ambiti della Resistenza organizzata: scontro armato, informazione, approvvigionamento e collegamento, stampa e propaganda, trasporto di armi e munizioni, organizzazione sanitaria, organizzazione di scioperi e manifestazioni per il pane e contro il carovita e il mercato nero.
La «staffetta» era qualcosa di più che una semplice «postina» come verrebbe da pensare: era colei che portava ordini e comunicazioni, ma anche armi e munizioni, che accompagnava uomini in fuga verso la salvezza e così via. Il rischio era sempre elevato e bisognava dimostrare notevole sangue freddo e tanta fortuna quando ci si imbatteva in un qualsivoglia posto di blocco: tanto più che bisognava mettere in conto non solo di rischiare la vita, ma di diventare oggetto di sgradite e pesanti attenzioni maschili.
Inoltre occorre considerare che tutte le attività informative svolte dalle ragazze e dalle donne.
La capacità di iniziativa individuale
Il punto di partenza cronologico è naturalmente l'8 settembre 1943, anche se non si possono dimenticare tanti precedenti, come l'antifascismo dimostrato nel corso del Ventennio o come le proteste pubbliche di madri e mogli per il graduale peggioramento delle condizioni di vita tra 1942 e 1943. Proprio al momento dell'annuncio dell'armistizio e di fronte al disfacimento delle nostre forze armate e alla cattura, quasi senza colpo ferire, di centinaia di migliaia di nostri soldati, le donne seppero reagire con inattesa decisione e inventiva.
Il maternage di massa - ovvero la sensibilità e la capacità di esplicare funzioni materne e protettive verso i nostri soldati in quei giorni di settembre - spinse un'infinità di donne di ogni età e di ogni regione italiana a considerare come propri figli quanti passavano davanti alle loro abitazioni, chiedendo un pezzo di pane, un abito borghese, un pagliericcio per riposare. Capacità di iniziativa individuale e fantasia segnarono i comportamenti di molte donne.
Nella pianura emiliana fiorirono le cosiddette «case di latitanza», che punteggiarono tutto il territorio. Per esempio nel Reggiano se ne trovavano a Campegine, Gattatico, Montecchio, S. Ilario d'Enza, Poviglio e così via, fino alla montagna. Erano generalmente poveri casolari sperduti in mezzo alle campagne: alcune nascondevano temporaneamente partigiani, disertori, alleati, ex prigionieri, mentre altre erano adibite allo smistamento dei giovani dalla pianura alla montagna e dalla montagna alla pianura. Le donne di queste case erano disposte a collaborare con la Resistenza e quindi pronte a preparare cibi e coperte per quanti si rivolgevano a loro in un qualsiasi momento del giorno e della notte. Erano le donne che curavano i feriti e li sorreggevano nei primi passi di convalescenza. Erano le donne che sostenevano gli ospiti nei momenti di sconforto, offrendo loro parole di speranza e d'incoraggiamento ed erano sempre loro che sostenevano la curiosità dei piccoli che sapevano, ma non dovevano sapere, inventando frasi di circostanza. Con coraggio nascondevano armi nei rifugi, nei fienili o nei doppi fondi dei mobili e celavano i loro uomini di fronte alle insistenze dei fascisti e dei tedeschi, trovando sempre le scuse più credibili per proteggerli dall'arresto.
In questo caso, se scoperte, al rischio dell'arresto o della fucilazione si aggiungeva quello di veder immediatamente bruciata la propria abitazione:
fu quel che capitò a Genoeffa Cocconi Cervi, la moglie di Alcide e la madre dei sette celebri fratelli. Genoeffa morì di crepacuore dopo la fucilazione dei figli e dopo un nuovo incendio della sua casa nel novembre 1944.
L’assistenza offerta a tutte le categorie di perseguitati comportava dunque notevoli rischi e non può certo essere intesa come una sorta di scelta più tranquilla e meno coraggiosa rispetto alla lotta armata.
Una forma diversa di solidarietà fu manifestata dalle donne che si attivarono per portare soccorso agli antifascisti incarcerati.
Donne coraggiose si prodigarono negli ospedali per curare i feriti - veri o presunti che fossero - e per celare, magari sotto improbabili ma terribili diagnosi mediche, ebrei e ricercati. Furono in primo piano, naturalmente, molte suore, come quelle dell'ospedale Niguarda di Milano o della Poliambulanza di Brescia. Ricordiamo il caso di Maria Peron, lei stessa infermiera a Niguarda: proprio in quanto coinvolta nelle operazioni di salvataggio di ebrei e partigiani all'interno delle strutture dell'ospedale, ella rischiò l'arresto e dovette lasciare Milano. Si recò presso le formazioni partigiane della Val Grande e divenne ben presto leggendaria per la sua capacità di organizzare i servizi di cura e di reperimento dei medicinali, in una zona di guerra soggetta a numerosi rastrellamenti. Maria esercitò di fatto l'attività del chirurgo e salvò più di una vita, conquistando in tal modo una sorta di parità professionale e diventando popolare anche presso i valligiani.
A Torino donne, appartenenti ai Gruppi di Difesa della Donna, si diedero un compito ancora più delicato e rischioso: «quando si veniva a sapere che c'erano dei caduti in città, certe donne andavano a togliere la corda agli impiccati, li lavavano, li componevano. Altre pensavano a portare i garofani rossi al cimitero. Le tombe dei partigiani erano sempre tutte infiorate.
I Gruppi di Difesa della Donna
I Gruppi di Difesa della Donna ebbero un importante ruolo: non solo sostenere la lotta partigiana, ma anche sensibilizzare le donne, far loro maturare una coscienza politica e prepararle in tal modo alle responsabilità del dopoguerra. Nati a Milano nel novembre '43 per iniziativa del Partito Comunista italiano, del Partito Socialista di Unità Proletaria e del Partito d’Azione, questi gruppi si diffusero dal 1944 in tutta Italia e vennero riconosciuti ufficialmente dal Comitato di Liberazione Alta Italia. Tra queste donne agirono figure celebri come Camilla Ravera, Lina Merlin e Ada Gobetti. Nell'aprile del '44, nacque il giornale «Noi Donne»
che insisteva sull'importanza e la specificità del ruolo delle donne nella difesa delle case e nella lotta quotidiana contro il carovita, invitando appunto a prepararsi «ad amministrare e governare». Il loro programma era semplice, ma di notevole importanza:
«Le donne italiane vogliono avere il diritto al lavoro, ma che non sia permesso sottoporla a sforzi che pregiudicano la loro salute e quella dei loro figli. Esse chiedono:
- la proibizione del lavoro a catena, del lavoro notturno, dell'impiego delle donne nelle lavorazioni nocive;
- essere pagate con una salario uguale per un lavoro uguale a quello degli uomini;
- delle vacanze sufficienti e l'assistenza nel periodo che precede e che segue il parto;
- la possibilità di allevare i propri bimbi, di vederli imparare una professione, di saperli sicuri del proprio avvenire; di partecipare all'istruzione professionale e non essere adibite nelle fabbriche e negli uffici soltanto a lavori meno qualificati;
- la possibilità di accedere a qualsiasi impiego, all'insegnamento in qualsiasi scuola, unico criterio di scelta: il merito;
- di partecipare alla vita sociale, nei sindacati, nelle cooperative, nei corpi elettivi locali e nazionali.
Non mancava, ovviamente, la richiesta del pieno diritto di voto politico e amministrativo per tutte le donne.
In questo contesto, in molte località italiane, si ebbero ripetute mobilitazioni al fine di raccogliere viveri, indumenti, sigarette, medicinali per aiutare concretamente le formazioni partigiane ad affrontare l'inverno del 1944.
Nella Resistenza armata
Nella Resistenza non furono molte le combattenti vere e proprie, e tuttavia non mancano esempi in tal senso. Furono diverse le ragazze che chiesero, con maggiore o minore successo, di imparare a sparare e di poterlo poi fare davvero.
Elisa Oliva fu comandante in Valdossola e, in seguito, ricordò di aver così risposto a chi le voleva togliere il comando: «Non sono venuta qua per cercarmi un innamorato. Io sono qua per combattere e ci rimango solo se mi date un'arma e mi mettete nel quadro di quelli che devono fare la guardia e le azioni. In più farò l'infermiera. Se siete d'accordo resto, se no me ne vado [...] Al primo combattimento ho dimostrato che l'arma non la tenevo solo per bellezza, ma per mirare e per colpire [...]
Anche nei GAP militarono donne che parteciparono direttamente ad azioni rischiose e alla preparazione ed esecuzione di attentati (a Roma, Carla Capponi fu partecipe dell'attentato di via Rasella, nei GAP di Milano Onorina Brambilla, con il marito Giovanni Pesce fu protagonista della lotta armata).
Alcune delle donne martiri della Resistenza hanno conosciuto violenze inenarrabili prima di essere uccise. Occorre tener conto anche la mera violenza psicologica esercitata in occasione di interrogatori o di processi. Rileggere cronache e testimonianze del tempo spinge a guardare con infinita ammirazione a donne che conservarono sangue freddo e dignità assoluta.
Visioni tradizionali e pregiudizi accompagnarono l'impegno delle donne nella Resistenza, specialmente quando esse si trovavano, volutamente o forzatamente a condividere la vita delle formazioni in montagna. Di conseguenza le giovani partigiane finirono per essere sommariamente identificate con figure di donne “facili” tanto che i comandi della Resistenza cercarono di dettare regole e porre limiti rigidi. Nell'agosto del 44 il comando della 19a brigata d'assalto Garibaldi, intitolata a Eusebio Giambone, comunicò al comando generale delle Brigate Garibaldi di aver costituito al proprio interno un distaccamento femminile composto da staffette e da familiari dei propri partigiani.
Nacquero comunque molti rapporti affettivi più o meno duraturi, che per lo più ambivano a una situazione di ricerca di solidità e di serietà, tanto che non mancarono i matrimoni celebrati alla macchia o nei paesi delle zone liberate, anche con l'assistenza del prete.
Dopo la Liberazione tutti i pregiudizi emersero - o riemersero - con prepotenza. In tante sfilate per le vie cittadine alle donne partigiane arrivò l'ordine di non sfilare, oppure di farlo figurando solo come crocerossine.
La Resistenza e l’impegno politico
Certo è che - una volta fatta la propria scelta - le donne seppero anche passare all'iniziativa, comprendendo che la Resistenza avrebbe costituito un passo decisivo sulla strada dell'emancipazione propria e di tutte le donne.
La partecipazione alla Resistenza - scoperta anche attraverso autonomi percorsi personali - fu così la premessa per un successivo e forte impegno politico: pur tra mille ostacoli e pregiudizi, le donne avrebbero così cominciato a far politica anche entro le istituzioni pubbliche. L’ingresso di quel sparuto gruppetto di 21 deputate alla Costituente (su 110 candidate) può essere visto come il punto di arrivo della lotta resistenziale al femminile e come il punto di partenza per una nuova storia dell'Italia: una volta tanto, in meglio.
Bibliografia
Giorgio Vecchio - LA RESISTENZA DELLE DONNE 1943-1945 – Ed In dialogo – Ambrosianeum – 2010
Le donne della Costituente
da La Domenica del Corriere : supplemento illustrato al Corriere della sera (4 agosto 1946, pag. 3) Milano
articolo tratto dalla Biblioteca del Senato Emeroteca Le donne della Costituente
Il 2 giugno 1946 il suffragio universale e l’esercizio dell’elettorato passivo portarono per la prima volta in Parlamento anche le donne. Si votò per il referendum istituzionale tra Monarchia o Repubblica e per eleggere l’Assemblea costituente che si riunì in prima seduta il 25 giugno 1946 nel palazzo Montecitorio.
Su un totale di 556 deputati furono elette 21 donne: 9 della Democrazia cristiana, 9 del Partito comunista, 2 del Partito socialista e 1 dell’Uomo qualunque.
Alcune di loro divennero grandi personaggi, altre rimasero a lungo nelle aule parlamentari, altre ancora, in seguito, tornarono alle loro occupazioni. Tutte, però, con il loro impegno e le loro capacità, segnarono l’ingresso delle donne nel più alto livello delle istituzioni rappresentative.
Donne fiere di poter partecipare alle scelte politiche del Paese nel momento della fondazione di una nuova società democratica.
Per la maggior parte di loro fu determinante la partecipazione alla Resistenza. Con gradi diversi di impegno e tenendo presenti le posizioni dei rispettivi partiti, spesso fecero causa comune sui temi dell’emancipazione femminile, ai quali fu dedicata, in prevalenza, la loro attenzione.
La loro intensa passione politica le porterà a superare i tanti ostacoli che all’epoca resero difficile la partecipazione delle donne alla vita politica.
“Le 21 donne alla Costituente”
Adele Bei
Bianca Bianchi
Laura Bianchini
Elisabetta Conci
Maria De Unterrichter Jervolino
Filomena Delli Castelli
Maria Federici
Nadia Gallico Spano
Angela Gotelli
Angela M. Guidi Cingolani
Leonilde Iotti
Teresa Mattei
Angelina Livia Merlin
Angiola Minella
Rita Montagnana Togliatti
Maria Nicotra Fiorini
Teresa Noce Longo
Ottavia Penna Buscemi
Elettra Pollastrini
M. Maddalena Rossi
Vittoria Titomanlio
Prove di emancipazione
Nella primavera del 1915, mentre i soldati italiani si avviano ai campi di battaglia, un secondo esercito comincia a combattere una sua guerra particolare. È un esercito composto da milioni di donne, anziane e giovanissime, contadine e intellettuali, ricche borghesi e proletarie che da un giorno all'altro si trovano a prendere sulle spalle la conduzione di un paese che ha mandato tutti i suoi uomini validi al fronte. La maggioranza di loro occupa il posto degli operai che hanno lasciato le fabbriche quasi deserte, migliaia entrano negli uffici per sostituire gli impiegati assenti, molte guidano i tram, spazzano le strade, portano la posta o fanno mestieri che ancora non hanno una dizione al femminile: campanaro, fabbro, cantoniere, barbiere, cancelliere e persino pompiere.
Nei campi si caricano di fatiche maschili e affrontano compiti amministrativi, come vendere e acquistare bestiame, riuscendo a mantenere quasi costante la produzione agricola. Le più benestanti e le aristocratiche fanno le infermiere, assistendo feriti anche a ridosso delle linee di fuoco. Quelle che non vogliono o non possono lavorare a tempo pieno si prodigano in altre forme di partecipazione: madrine di guerra, assistenti di famiglie rimaste prive di sostegno, scrivane per gli analfabeti, organizzatrici di questue, di lotterie o anche dispensatrici di "baci patriottici" a cento lire l'uno. Qualcuna fa la spia, qualcuna la corrispondente di guerra, qualcun'altra tenta addirittura di arruolarsi travestendosi da uomo. Molte, di contro, spinte dalla miseria, si prostituiscono in bordelli itineranti organizzati nelle retrovie dai comandi militari.
Nel giro di pochi mesi l'Italia è interamente in mano alle donne, come del resto accade già da un anno in paesi come la Germania, l'Inghilterra o la Francia. In tutta Europa si crea così una frattura nell'ordine familiare e sociale che non esaurirà con la guerra ma avrà conseguenze più o meno incisive nei decenni a seguire. Anche la gerarchia tra i generi subisce un rivolgimento, seppur temporaneo. L’uomo è al fronte a sparare e uccidere, come vuole il suo ruolo atavico, ma impara a usare ago e filo per rammendarsi gli indumenti e a non nascondere le sue fragilità nelle lettere a madri e mogli. La donna accudisce casa e figli, ma affronta per la prima volta lo spazio aperto del mondo, conquistando (insieme alla doppia fatica) una improvvisa e straordinaria libertà di movimento.
Il punto di partenza (e anche quello di arrivo) delle donne italiane è però qualche passo indietro rispetto al resto d'Europa. Anche se molte già lavoravano da tempo in fabbrica e negli uffici, i loro diritti sono fermi al Codice di Famiglia del 1865. Cioè a zero. Non esercitano alcuna tutela sui figli, devono far gestire al marito i soldi del proprio salario, non possono stipulare contratti o far parte di una qualsiasi associazione senza la cosiddetta "autorizzazione maritale".
Una situazione che negli anni precedenti aveva fatto nascere anche in Italia un movimento per la parità dei diritti, sia pure condotto in tono minore rispetto ad altri paesi, specie all'Inghilterra dove le suffragette, attive già negli ultimi decenni dell'Ottocento, facevano manifestazioni clamorose rischiando spesso l'arresto. Il movimento italiano, nutrito in gran parte da associazioni femminili di assistenza e impegno sociale, era riuscito comunque a organizzare nel 1908 un grande Congresso Nazionale delle Donne e dar vita a riviste specializzate. Ma nel 1912 quando fu varato il suffragio universale maschile, il Parlamento respinse a grande maggioranza la richiesta di estendere il voto alle donne, giudicato da Giolitti «un salto nel buio».
Gli annunci di guerra avevano poi spaccato la compattezza del movimento, fino ad allora decisamente pacifista. Molte intellettuali, avevano optato per l'interventismo, come la socialista Anna Kuliscioff e come Margherita Sarfatti che smette di scrivere per "La difesa delle lavoratrici" e passa al "Popolo d'Italia". La storica Augusta Molinari, autrice di Una patria per le donne. La mobilitazione femminile nella Grande Guerra, osserva a questo proposito: «Pur non venendo meno la richiesta del diritto al voto, l'etica del dovere verso la patria fa apparire rinviabile ogni rivendicazione di diritti. La priorità dell'azione politica diventa, anche per il femminismo, quello di servire la patria».
Ma il coinvolgimento delle donne è nei fatti. Massiccio, diffuso, praticamente totale in molti settori della produzione e della scena sociale, occupa presto anche l'immaginario con riferimenti visivi sempre più forti: cartelloni, manifesti e le popolarissime cartoline.
Se tutto ciò sia stato un volano di emancipazione che ha cambiato in profondità la storia femminile del nostro Paese o soltanto una parentesi di necessità che il fascismo fece presto dimenticare riducendo di nuovo la donna a moglie e madre prolifica, è a tutt'oggi materia di dibattito tra gli storici. Ma se è vero che bisognerà aspettare il secondo dopoguerra perché il suffragio diventi davvero universale (le donne ottennero il voto 31 gennaio 1945), e altri trent'anni perché il nuovo diritto di famiglia del 1975 scardini i residui patriarcali, nessuno mette in dubbio che in quegli anni si verificò una mobilitazione femminile senza precedenti che produsse mutamenti di costume e di consapevolezza non più reversibili.
scioperi e partecipazione alla Resistenza dei lavoratori milanesi e lombardi, negli anni dal 1943 alla Liberazione del 1945
testo dell'articolo di Antonio Pizzinato
La partecipazione del mondo del lavoro alla lotta contro la guerra ed il nazifascismo non ha paragoni in nessun altro Paese europeo.
SCIOPERI MARZO 1943
Gli scioperi, nel 1943, iniziano a Torino il 5 marzo alle “ore 10” alla FIAT, al suonare delle sirene di verifica del “preallarme”, poi si estendono ad altre fabbriche di Torino. A Milano dove da mesi e mesi era in corso la riorganizzazione, dopo gli arresti, di una rete antifascista clandestina – coordinata da Umberto Massola, Giovanni Brambilla e Giuseppe Gaeta – la mobilitazione è prevista nelle settimane successive. Il malessere fra i lavoratori, per i bassi salari, la scarsità dei viveri e le conseguenze della guerra, è forte e si espande. Tant’è che, il 18 marzo, gli operai del turno di notte della Breda Aeronautica scendono in sciopero – per 11 ore – e rivendicano l’aumento delle retribuzioni. Il lavoro viene ripreso a fronte dell’impegno della Direzione a rivedere le retribuzioni. Negli stessi giorni gli operai del “reparto 64” (produzione gomme) della Pirelli protestano, attuano scioperi di due ore, contro l’orario di lavoro continuativo ed ininterrotto per 12 ore, poiché la Direzione ha eliminato i sostituti. Mentre gli operai del secondo turno del “reparto bulloneria” della Falck Concordia di Sesto San Giovanni, dopo aver dialogato, sugli scioperi in Piemonte, con i camionisti FIAT, addetti al trasporto della componentistica (bulloni) dalla Falck alla FIAT, il pomeriggio del 22 marzo, iniziano lo sciopero. Questo costringe il Comitato clandestino del nord Milano ad anticipare lo sciopero nelle fabbriche. Alle ore 10 del 23 marzo, scioperano i lavoratori degli stabilimenti Falck, Breda, Ercole Marelli, Magneti Marelli, Pirelli Bicocca.
Nei giorni successivi gli scioperi, che hanno come epicentro Sesto San Giovanni, si estendono a Milano: Officine Borletti, Alfa Romeo, Brown Boveri (TIBB), Face Standard, Caproni, Salmoiraghi, Geloso nel legnanese, a partire dalla Franco Tosi, in Brianza, e numerose grandi e medie aziende nel milanese ed in Lombardia. Questi scioperi, che si ponevano come obiettivo di migliorare i trattamenti retributivi, le condizioni di lavoro, ottenere la fornitura - attraverso spacci aziendali – di alimenti, olio, vestiario, oltreche la fine della guerra, si svilupparono, in questa o quella fabbrica, anche nei mesi successivi. Scioperi che – tra marzo e luglio del 1943 – interessano, nel Nord Italia, 217 aziende ed oltre 150 mila scioperanti; essi ebbero un peso non secondario sul Consiglio Generale del fascismo e la destituzione di Mussolini il 25 luglio del 1943; la formazione del governo Badoglio e l’avvio di una nuova fase nella storia del nostro Paese. Nello stesso periodo centinaia di lavoratori (di cui 20 donne) vennero arrestati, di notte, nelle loro abitazioni considerati tra gli organizzatori e partecipanti agli scioperi, o per l’attività antifascista. Oltre 60 di essi sono milanesi e vennero rinviati a processo presso il Tribunale Militare di Milano.
Pur con tutti i limiti, presenti in questa prima fase delle lotte nelle fabbriche, si ricrea una aggregazione sociale tra i lavoratori delle fabbriche, i quali scioperano sfidando non solo la dittatura fascista, ma anche le norme della legge del 3 aprile 1926 (poi introdotte, nel 1930, nel Codice penale) che considerano lo sciopero un reato penale punito con due anni di carcere o con una multa di 1.000 lire (un mese di stipendio). Questi scioperi, oltre a scuotere il Paese, contribuiscono a rovesciare Mussolini, portano dei limitati benefici ai lavoratori a livello aziendale, ma sono di stimolo a due misure che vengono adottate dal Governo Badoglio: la nomina, il 3 agosto, dei Commissari sindacali: Bruno Buozzi, Giovanni Roveda e Gioachino Quarello ed, il 2 settembre 1943, la stipula dell’Accordo – tra Commissari sindacali e dell’Industria - per l'elezione delle Commissioni Interne. Quindi, prima dell’armistizio – anche grazie agli scioperi di Torino e Milano – si determina un mutamento della situazione e delle relazioni sindacali che – di fatto – tenta di avviare il superamento del corporativismo sindacale fascista.
8 SETTEMBRE: ARMISTIZIO, OCCUPAZIONE, NUOVI SCIOPERI
La sottoscrizione, da parte del Governo Badoglio, dell’armistizio con gli anglo-americani, l’8 di settembre 1943, e la fine dell’alleanza con i nazisti tedeschi, registra sia manifestazioni e scioperi nelle fabbriche di Milano che manifestazioni in varie città d’Italia. Nell’arco di alcune settimane il Paese è diviso in due, le truppe alleate salgono dal sud, mentre le truppe tedesche occupano, a partire dal Nord, il resto del Paese ed al Nord viene costituita la Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.).
Nelle fabbriche inizia una nuova fase di lotta, mentre in molte – sulla base dell’accordo Buozzi-Mazzini – dopo un ventennio, si eleggono le Commissioni Interne.
Gli scioperi che, nelle grandi fabbriche della Lombardia, iniziano a svilupparsi a partire da novembre hanno contenuti rivendicativi sempre più precisi, vere e proprie piattaforme rivendicative che – pur con diversità, nelle varie fabbriche – prevedono :
- aumento del 100% delle retribuzioni (suddiviso nel 50% in natura (alimentari) ed 50% in denaro),
- corresponsione annuale di 192 ore come gratifica natalizia;
- elevare l’indennità giornaliera a 16 lire, per malattia ed infortunio, da corrispondere anche nei primi giorni di carenza;
- aumento delle razioni alimentari (grassi, olio, zucchero, ecc.) con distribuzione in azienda, creando spacci aziendali (ove non esistono) che devono fornire anche viveri ed indumenti;
- aumento della razione giornaliera di pane a 500 grammi;
- assicurare ai lavoratori combustibile e carbone;
- servizio mensa aziendale con due piatti (primo e secondo), per tutti i turni di lavoro;
- eguale trattamento annonario ed economico agli operai ed impiegati;
- parità di trattamento, per eguale mansione, tra uomini e donne;
- scarcerazione degli ex membri delle Commissioni Interne;
- cessazione della persecuzione politica a danno dei lavoratori;
- abolizione dei licenziamenti e le sospensioni dal lavoro.
A sostegno di tali richieste e della fine della guerra, le quali venivano presentate alle direzioni aziendali, dai comitati d’agitazione (o dalle C.I.), nelle fabbriche si svilupparono gli scioperi.
Il 13 dicembre, con inizio alle ore 10, scendono in sciopero decine di migliaia di lavoratori di Sesto San Giovanni, si bloccano FALCK, Breda, Ercole Marelli, Pirelli Sapsa, Magneti Marelli, ed altre aziende minori.
Lo sciopero è praticamente totale. I confronti con le direzioni non sbloccano la situazione. Il generale tedesco Zimmerman – che su ordine di Hitler e del generale Wolf era stato inviato, con poteri straordinari al comando tedesco di Milano – fa radunare sul piazzale dello stabilimento della Falck Unione, i lavoratori in sciopero della Falck. Dalla torretta di un carro armato, lo stesso svolge un intervento nel quale, dopo aver dichiarato che avrebbe esaminato e ricercato soluzione alle loro richieste, intimò: “chi non riprende il lavoro, esca dagli stabilimenti; chi esce dalla fabbrica è dichiarato nemico della Germania”. I lavoratori, a questa intimidazione, risposero proseguendo lo sciopero e lasciando tutti gli stabilimenti. Durante la notte centinaia furono arrestati; portati in carcere e poi nei campi di concentramento nazisti. La lotta proseguì (è da allora che Sesto San Giovanni, viene soprannominata “Stalingrado d’Italia”, con riferimento all’accerchiamento tedesco che era in corso a Stalingrado) e si estese in molte fabbriche del milanese. Il 5 gennaio 1944, il generale Zimmerman, compie un’analoga azione contro i lavoratori alla Franco Tosi di Legnano che sono in sciopero.
I soldati tedeschi, assieme a quelli della RSI, entrano in fabbrica, mettono al muro, nel cortile dell’azienda, 80 lavoratori, poi ne scelgono 60 compresi i componenti la C. I., li portano in carcere a Milano e 11 vengono deportati in campo di concentramento; nove non faranno più ritorno. Stessa operazione le SS attuarono alla Comerio di Busto Arsizio , con la deportazione di 5 lavoratori che non fecero più ritorno. Malgrado la violenta repressione, gli arresti e le deportazioni che vengono posti in atto dai nazifascisti diretti da Zimmerman, gli scioperi tra novembre 1943 e gennaio 1944 si estendono a nuove fabbriche, grandi e medie, della città e provincia. Questa fase, oltre agli scioperi in fabbrica, vede il formarsi dei nuclei partigiani (a partire dalle SAP e dai GAP), con l’attiva partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici alle brigate partigiane, che si vanno aggregando e costituendo sia sulle montagne che nelle campagne a partire dall’Oltrepò Pavese. Ma questa fase e la successiva, di lotte e scioperi, è caratterizzata - è doveroso porlo in evidenza - da significativi risultati sul piano economico, normativo, ed alimentare. Questo si realizza sia attraverso i confronti che avvengono in fabbrica, con anche la partecipazione – spesso – di rappresentanti del comando tedesco, che quelli presso la Prefettura di Milano, la quale svolge un ruolo di intermediazione. Infatti oltre ad aumenti salariali, forniture di alimenti, gomme e copertoni per le biciclette, carbone, si prevede l’erogazione annuale delle 192 ore (la gratifica natalizia) e l’istituzione nelle aziende del servizio mensa con la fornitura di due piatti (primo e secondo). Il diritto al servizio mensa sarà sanzionato con Decreto prefettizio pubblicato sul Bollettino ufficiale.
Questi parziali risultati rafforzano la nuova aggregazione, coesione sociale tra i lavoratori e la lotta antifascista, riescono a sconfiggere il “neopopulismo”, il falso “operaismo”, che tenta di attuare la Repubblica sociale, nonchè resistere alla repressione nazista.
LO SCIOPERO DEL MARZO 1944
Con alle spalle queste esperienze, l’avviata ricostruzione della rete di nuclei partigiani (dopo gli arresti del 3° GAP, le fucilazioni del 20 dicembre all’Arena, ed il 31 dicembre al Poligono di tiro della Cagnola e molti altri, nonché lo scioglimento dei gruppi partigiani lungo l’Adda ed il Ticino) il primo marzo 1944 si attua lo sciopero generale del Nord Italia. A Milano lo sciopero generale ha una partecipazione superiore al previsto, coinvolge centinaia e centinaia di aziende ed oltre 350.000 lavoratori (oltre un milione 350 mila lavoratori scioperano in tutta Italia), bloccherà la produzione, a partire da quella militare per giorni. Il giorno successivo – il 2 marzo – scendono in sciopero, per la prima volta, i tranvieri bloccando i mezzi di trasporto sia nei depositi che ai capolinea. I repubblichini di Salò, tentano di far circolare i mezzi, ma non riescono a sbloccare la situazione, sia per gli errori che commettono portando i tram fuori dai binari;
ma soprattutto per la compattezza dello sciopero e la determinazione dei tranvieri, che protraggono lo sciopero per 5 giorni. Contemporaneamente il Paese viene privato anche di informazioni poiché scendono in sciopero i lavoratori (tipografi e giornalisti) del Corriere della Sera, il più diffuso quotidiano del Paese. In quei giorni, in numerose banche, restano chiusi gli sportelli, poiché i lavoratori del settore creditizio partecipano in forme diverse allo sciopero. Uno sciopero generale che per estensione, partecipazione, combattività e compattezza, assume esplicitamente il carattere di “rivolta”, mobilitazione, contro la fame, la guerra e l’occupante nazifascista. Con sempre più nettezza emerge anche la combattività delle operaie, delle lavoratrici. Le lavoratrici erano state le prime a protestare - già nel 1942 – manifestando per le vie di Sesto San Giovanni rivendicando più viveri. Gli interventi repressivi (arresti, deportazioni) sia da parte delle truppe tedesche che della milizia fascista non riescono a porre fine allo sciopero generale, il primo dopo vent’anni di dittatura fascista. Come fallisce anche il tentativo di far intervenire le imprese (per la resistenza delle stesse) per mediare con i lavoratori e far riprendere il lavoro. Lo sciopero generale incise anche sugli orientamenti delle popolazioni lombarde poiché durante la guerra si ebbe un forte aumento degli occupati nelle fabbriche milanesi. Basti pensare che ben oltre 150 mila lavoratori erano pendolari. Cioè si recavano giornalmente in città, provenienti dalle valli, in specie dal lecchese, bergamasco e bresciano. Tutto ciò favorì la presa di coscienza e la diffusione degli orientamenti antifascisti e dell’esperienza delle lotte in fabbrica, nelle comunità rurali. È in questo quadro che il Comitato d’agitazione interregionale – Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia – decise di diffondere clandestinamente - il sabato e la domenica - un volantino che invitava i lavoratori a riprendere il lavoro l’8 marzo. Lo sciopero generale è prettamente politico, non era caratterizzato da una piattaforma rivendicativa economico-sociale Lo stesso segna una svolta nella lotta contro l’occupante tedesco, il fascismo e la guerra, come indicato nel comunicato sullo sciopero e per la ripresa del lavoro del Comitato d’agitazione della Lombardia. Esso afferma: “La cessazione dello sciopero deve segnare l’inizio di una guerriglia partigiana con l’intervento di tutte le masse lavoratrici dentro e fuori la fabbrica […]. Oggi per l’esistenza del popolo italiano, vi è una sola soluzione: rispondere con la violenza alla violenza. Alle deboli e disordinate forze del nemico, dobbiamo contrapporre le solide e numerose forze armate dei lavoratori”. Questa svolta, partiva certamente anche dal presupposto che vi fosse un’accelerazione dell’avanzata delle truppe Alleate e, quindi, della liberazione del Paese entro il 1944. Ciò che, purtroppo, si verificò solo l’anno successivo. Gli sviluppi della lotta di liberazione videro una forte e ampia partecipazione dei lavoratori sia nei GAP, nelle SAP che nelle Brigate partigiane, le quali andavano costituendosi anche nelle fabbriche, e nei quartieri della città. La repressione durante gli scioperi del marzo 1944 a Milano, portò fra l’altro, arresti, deportazioni che riguardavano sia, in particolare, gli antifascisti, (già condannati dal Tribunale speciale al confino ed al carcere), presenti nelle fabbriche, ritenuti organizzatori degli scioperi, nonché operai, tecnici, impiegati, molti dei quali erano ragazzi e ragazze giovanissimi. Di essi, centinaia , non hanno più fatto ritorno dai lager di sterminio. Gli scioperi nel Nord Italia ed in particolare lo sciopero generale del marzo 1944 – unico in Europa – ebbero una forte ricaduta politica non solo in Italia, ma anche a livello mondiale per la diffusione, da parte delle radio, dei media, della notizia a livello internazionale. Essi dimostrano la ripresa di un ruolo autonomo della classe operaia, sia come coesione sul piano sociale , che nell’azione per la conquista della indipendenza, libertà e democrazia. Essi contribuirono altresì a portare a conclusione il confronto, già in corso da mesi, fra le correnti sindacali per la definizione del “patto di Roma” sulla ricostituzione del sindacato, del sindacato unitario che venne sottoscritta a Roma il 3 giugno 1944 da Giuseppe Di Vittorio, Achille Grandi, ed Emilio Craveri.
Ma mentre nel Paese prosegue la lotta partigiana, con l’attivo apporto della classe operaia ed il sabotaggio della produzione militare, nei luoghi di lavoro non si arrestarono gli scioperi per rivendicare miglioramenti economici, la fornitura di alimenti e carbone per il riscaldamento. I tedeschi e fascisti rispondono a questi scioperi con un’ondata repressiva senza precedenti: rastrellamenti e stragi sulle montagne, nelle valli ed in città, nonché con arresti e deportazioni nelle fabbriche che scioperano. Così, ad esempio, alla Pirelli Bicocca, mentre è in corso uno sciopero aziendale, alle 11 del 23 novembre del 1944, entra nello stabilimento un reparto delle SS tedesche ed arrestano indiscriminatamente 181 operai e due tecnici, che vengono portati in carcere per la successiva deportazione in campo di concentramento. Le SS respingono la richiesta dell’azienda di rilasciare 105 degli arrestati poiché specialisti indispensabili alla produzione. Il comando tedesco respinge la richiesta e convoca Alberto Pirelli “accusandolo, insieme alla direzione della società, di connivenza con gli operai … e di tolleranza verso gli elementi socialisti e comunisti …”. Quindi le SS rilasciano 16 operai e deportano in Germania tutti gli altri. La repressione nazifascista nei confronti degli scioperanti, in Provincia di Milano, durante il periodo resistenziale colpisce migliaia di lavoratori, 800 dei quali vengono deportati –Essi partono, rinchiusi nei vagoni bestiame, dal “binario 21” della stazione F.S. di Milano – con destinazione nei campi di concentramento. Nelle sole fabbriche del Nord Milano (Pirelli, Magneti Marelli, Breda, Falck, Stazione Locomotive di Greco, Ercole Marelli, ecc.), come ricordato sul “Monumento al Deportato” del Parco Nord, sono 635, oltre 200 dei quali non fecero ritorno. Poiché i lavoratori deportati in Germania, da tutta Italia, sono oltre 12.000, queste cifre indicano la dimensione ed il carattere della repressione nazifascista nel milanese. I lavoratori delle aziende più colpite furono nell’ordine: Breda, Falck, Caproni, Alfa Romeo, Pirelli, Innocenti. Infine i lavoratori, oltre a partecipare alla insurrezione armata nella fase conclusiva della liberazione, occuparono e presidiarono le fabbriche per impedire che i soldati tedeschi, in ritirata, distruggessero il patrimonio industriale del nostro Paese.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Da quanto sinteticamente illustrato sul ruolo e le modalità di lotta dei lavoratori milanesi nell’azione per la riconquista della libertà, la democrazia e l’indipendenza del paese con la Liberazione, si possono trarre le seguenti conclusioni.
1. La mobilitazione dei lavoratori, la partecipazione agli scioperi è stata possibile perché in modo puntuale la rete clandestina antifascista – già a partire dagli scioperi del marzo 1943 -, elaborò le piattaforme rivendicative da presentare alle direzioni partendo dai problemi concreti (retribuzioni, alimenti, condizioni di lavoro, diritti dei lavoratori - parità fra operai e impiegati, e tra donne e uomini -) oltre alla fine della guerra. Esperienza e prassi tutt’ora valida per aggregare i diversi mondi del lavoro.
2. Con quelle lotte e scioperi, mentre l’obiettivo fondamentale è la Liberazione e la fine della guerra, si conquistano risultati che aiuteranno e segneranno le conquiste sindacali della fase successiva alla Liberazione: la gratifica natalizia, il diritto al servizio mensa (con primo e secondo), la riconquista del diritto dei lavoratori ad eleggere le Commissioni Interne; elementi di parità fra uomo e donna e ed operai e impiegati.
3. Il ruolo dei lavoratori nella lotta di liberazione ed i valori di cui si fanno portatori nelle loro lotte, trovano implementazione nella Costituzione, che saranno poi tradotte in norme (salute, istruzione, previdenza, diritti dei lavoratori in fabbrica, parità-uomo donna) con decenni di mobilitazione e lotte per la conquista delle leggi attuative. Problema più che mai attuale per assicurare la parità di diritti, alle giovani generazioni, a fronte delle trasformazioni intervenute.
4. La ripresa e sviluppo dell’iniziativa dei lavoratori nelle fabbriche, la ricostituzione della coesione e solidarietà della classe operaia, ma anche dei vari strati dei lavoratori, favorisce la ricostituzione del sindacato unitario – la CGIL – come soggetto contrattuale e sociale autonomo (indipendente come diceva Di Vittorio) che dà un contributo importantissimo alla conquista della Repubblica ed alla elaborazione della Costituzione.
la "Stalingrado d'Italia"
Comune di SESTO SAN GIOVANNI (MI)
Medaglia d'oro al valor militare Data del conferimento: 18-6-1971
motivo del conferimento:
Centro industriale fra i primi d’Italia, durante venti mesi d’occupazione nazifascista fu cittadella operaia della resistenza, che la lotta di liberazione condusse con la guerriglia, di sabotaggio esterno e nel chiuso delle fabbriche, l’intensa attività d’aggressive formazioni partigiane di città e di campagna, le coraggiose aperte manifestazioni di massa, la resistenza passiva e gli scioperi imponenti, esiziali per la produzione bellica dello straniero oppressore. Irriducibili a lusinghe, minacce e repressioni, maestranze e popolazione, di contro alle ingenti perdite umane e materiali del nemico pagarono con perdite in combattimento, dure rappresaglie, deportazioni e lutti atroci il prezzo della loro battaglia offensiva, di cui furono epilogo alla liberazione, gli ultimi scontri sanguinosi, la difesa delle fabbriche dalla distruzione, per la salvezza di un quinto del patrimonio industriale della Nazione. Decine di fucilati, centinaia di caduti in armi e in deportazioni, migliaia di partigiani e patrioti di ogni estrazione e di diversi ideali testimoniano il valore e il sacrificio del popolo sestese, ispirati da unico anelito d’indipendenza dallo straniero invasore e da comune amore di Patria e di libertà. - Sesto San Giovanni (Milano), settembre 1943 - aprile 1945
Per tutto il XIX secolo Sesto San Giovanni fu un borgo rurale che contava meno di 5000 abitanti. Dal 1840 il borgo fu attraversato dalla seconda linea ferroviaria italiana, la Milano-Monza, destinata ad allungarsi sino al confine svizzero, e a collegarsi, dal 1882, con il centro Europa attraverso la galleria del San Gottardo. Dai primi anni del Novecento Sesto San Giovanni divenne, quindi, l'epicentro dell'asse Greco-Niguarda-Monza percorso dalla linea ferrovia internazionale, da una tramvia elettrica interurbana, e dal grande stradone napoleonico che univa piazzale Loreto (Milano) alla Villa Reale di Monza.
Fra il 1903 e il 1913 Sesto San Giovanni divenne una "piccola Manchester", una "città delle fabbriche". Accanto ai pochi opifici preesistenti, si trasferivano nei nuovi stabilimenti costruiti in pochi mesi, aziende grandi e medie dei settori siderurgico e meccanico, chimico e alimentare: la Società italiana Ernesto Breda, la Davide Campari (1903), la Turrinelli (1904), la Ercole Marelli, la Trafilerie Spadaccini, la Fonderia Balconi, la Fonderia Attilio Franco, le Pompe Gabbioneta, il nastrificio Kruse (1905), le Acciaierie e Ferriere Lombarde Falck (1906), il Laminatoio Nazionale (1907), la Pirelli (1909), l'Alimentari Maggi, le Trafilerie Barelli e le Distillerie Italiane (1910). Alcune aziende - Breda, Pirelli, Falck ed Ercole Marelli - si ampliarono rapidamente, raggiungendo rinomanza europea.
I grandi viali industriali creati ad hoc erano costeggiati e attraversati da rotaie che consentivano il transito su treni di materie prime e prodotti finiti (anche incandescenti). All'inizio e alla fine dei turni di lavoro le vie erano percorse da migliaia di biciclette, le fermate dei tram e dei bus nei pressi delle fabbriche e la stazione ferroviaria erano gremite di pendolari. La vita della cittadina era scandita dal suono delle sirene delle varie fabbriche, ognuna riconoscibile dalla tonalità.
Nel 1942, le grandi aziende ebbero un notevole incremento di occupati - Breda e Falck raddoppiarono gli addetti. In gran parte erano donne e ragazzi, a bassa qualificazione professionale, costretti dalla necessità a lasciare i settori di origine entrati in crisi (ad esempio: commercio, edilizia e agricoltura). Con i bombardamenti alleati su Milano, le sconfitte militari, le difficoltà negli approvvigionamenti alimentari e la "borsa nera", la fabbrica divenne il centro della sopravvivenza quotidiana, con le mense e gli spacci aziendali. In quel periodo i lavoratori delle fabbriche dell'area industriale di Sesto San Giovanni erano oltre 50.000, mentre la popolazione residente era di 40.914 unità.
Sesto San Giovanni è stata una delle aree industriali più importanti d'Italia e d'Europa per la concentrazione di industrie e di lavoratori che hanno animato una Resistenza collettiva e di massa, che ha coinvolto la città e l'area milanese e lombarda, nella quale gli scioperi contro il fascismo e l'occupazione nazista e la deportazione di massa di lavoratori che hanno scioperato contro i nazifascisti hanno assunto un valore emblematico che ha travalicato i confini del nostro Paese.
Dopo i massicci bombardamenti dell'ottobre novembre del 1942, si crea il primo «embrione di opposizione» che all'inizio del 1943, comincia a prendere contatti con l'antifascismo milanese. Per gli scioperi, nei giorni 22 e 23 marzo 1943, si fermano le officine meccaniche e la direzione chiede l'intervento dell'autorità militare. Giunge invece la polizia fascista che opera numerosi arresti.
Dopo gli scioperi del 1943 si organizzano fra gli operai delle collette, allora severamente proibite, per aiutare le famiglie degli arrestati. Il fattivo interessamento di Alberto e Piero Pirelli facilita la liberazione di alcuni di loro dopo uno o due mesi di carcere. Gli altri saranno liberati dopo il 25 luglio, senza alcun processo. Durante i 45 giorni del governo Badoglio, gli interventi attuati dall'autorità militare per sedare scioperi di natura economica sono formalmente condannati a più riprese dalla direzione della società.
L'area industriale di Sesto San Giovanni, per i grandi scioperi operai, verrà definita "Stalingrado d'Italia".
Particolarmente significativi furono lo sciopero generale del 21 settembre 1944 che coinvolse Breda, Pirelli ed Ercole Marelli e lo sciopero del 23 novembre alla Pirelli Bicocca, dove i nazisti, capeggiati dal capitano delle SS Theo Saewecke, effettuavano 183 arresti; l'intervento della Direzione, peraltro minacciata di deportazione in blocco, valse a far rilasciare 27 operai. 156 lavoratori furono comunque avviati alla deportazione nei lager nazisti.
A proposito di Sesto San Giovanni in un rapporto confidenziale G. Zanuso, Comandante militare di zona delle Brigate nere di Monza, redatto il 21 febbraio 1945 e indirizzato al Comando provinciale del corpo ausiliario delle Brigate nere scriveva: “è una vera maledizione questo centro industriale totalmente sovversivo! Lì sta veramente il cancro della Lombardia (unitamente a Milano) e questa città rossa dovrebbe essere completamente distrutta all'infuori delle industrie con il sistema germanico. La popolazione maschile deportata in Germania”.
La deportazione politica ha assunto nell'area industriale di Sesto San Giovanni dimensioni di massa per la grande e compatta partecipazione dei lavoratori agli scioperi politici del 1944 e per l'impegno degli operai nelle organizzazioni clandestine della Resistenza e nelle brigate partigiane di città e di montagna che nella fabbrica avevano le proprie basi. Il numero dei lavoratori deportati e dei caduti fu altissimo: 553 i deportati immatricolati.
A eccezione dell'arresto degli scioperanti della Pirelli Bicocca il 23 novembre 1944, dei rastrellati e delle vittime delle rappresaglie, gli arresti degli altri deportati vennero operati dalla Polizia repubblichina, dai carabinieri, dalla GNR con l'appoggio della Legione autonoma "Muti", dalle diverse polizie repubblichine: SS italiane, aviazione, Brigate nere o, secondo alcune testimonianze di deportati e loro familiari, da indistinti "fascisti italiani". I tedeschi non comparvero sulla scena degli arresti, si riservarono il compito di comandare, picchiare e torturare, assumendo il ruolo di arbitri della vita dei catturati.
Su 495 deportati dei quali sono noti i luoghi e le circostanze dell'arresto, 196 furono prelevati in fabbrica, 177 vennero arrestati a casa di notte, 18 a casa in altre ore, 101 furono catturati in luoghi diversi, in montagna, nei locali pubblici, sui mezzi di trasporto e in rastrellamenti.
Numerosi arrestati a causa dell'attività politica e per la partecipazione ad azioni partigiane vennero trattenuti per uno o più giorni nelle celle dei diversi Gruppi rionali fascisti di Milano, in quelle della Questura in piazza San Fedele a Milano, o nelle Carceri mandamentali della provincia o in luoghi di detenzione e di tortura come l'ex Macello di Monza.
I deportati morti furono 220, tutti uomini. 215 morirono nei lager o negli ospedali alleati, 5 furono fucilati nel poligono di Cibeno, nei pressi del campo di Fossoli, il 12 luglio 1944. Altri 10 morirono dopo il loro rientro in Italia tra il 1945 e il 1950 a causa della deportazione.
da
STREIKERTRANSPORT
La deportazione politica nell'area industriale di Sesto San Giovanni 1943-1945
di Giuseppe Valota
Edizioni GUERlNI E ASSOCIATI Milano 2007
Lo sciopero del 23 novembre 1944 alla Pirelli Bicocca
La repressione dello sciopero politico e la razzia di mano d'opera a bassissimo costo per l'industria tedesca sono alla base delle deportazioni del 23 novembre 1944 degli operai della Pirelli Bicocca. In solidarietà con Caproni, Falck e Magneti Marelli colpite da una serrata, conseguenza di uno sciopero generale dichiarato, ma parzialmente fallito, la Pirelli Bicocca - unica azienda dell'area industriale che, seguendo le indicazioni del Comitato sindacale di Milano e provincia, scese in sciopero compatta alle 10 del “23.11. Da Sesto San Giovanni - benché non sia stato dato il segnale delle 10, le maestranze della Pirelli fermarono uniti e compatti negli stabilimenti della Bicocca, Milano e Varedo, con la partecipazione dei tecnici e impiegati". Tra questi operai in sciopero anche il lissonese Umberto Viganò.
Le SS arrivarono in tarda mattinata e iniziarono una caccia all'uomo, fra lo scompiglio generale che impedì ogni reazione. "Reparto per reparto è stato presidiato dai tedeschi, le maestranze non si spaventano; le maestranze sono trattenute nei reparti. Avviene l'interrogatorio non so su che cosa. Nessuno può uscire. Alle 15 danno da mangiare. I familiari in gran numero si presentano davanti allo stabilimento chiedendo la loro sorte; si risponde che saranno mandati in Germania a lavorare". Le SS catturarono 183 lavoratori - fra loro vi erano due ingegneri e un impiegato - addossandoli ai muri e malmenandoli. Vennero tutti caricati su camion e portati a San Vittore. La mattina successiva la Direzione aziendale entrò in contatto con l'ingegner Knierin, incaricato tedesco per l'elettroindustria cercando di ottenere il rilascio di 105 lavoratori specializzati o in particolari condizioni di salute e di famiglia. Dopo l'intervento diretto di Alberto Pirelli presso il generale Leyers, rappresentante del RUK (Direzione generale degli armamenti e produzione bellica) che non prese alcuna posizione, il tenente Bauer, sottoposto del capitano Teo Saevecke, dirigente della SD di Milano, accusò Pirelli di connivenza con gli operai comunisti e socialisti, asserendo che il rastrellamento aveva avuto luogo per un “provvedimento di polizia". Ciononostante Alberto Pirelli avanzò formalmente la richiesta che tutti i dipendenti arrestati fossero rilasciati.
A cinque giorni dall'arresto 156 lavoratori vennero deportati in Germania, 3 riuscirono a fuggire dai vagoni piombati in territorio italiano, 153 furono immatricolati in diversi campi di lavoro, 12 morirono, uno morì dopo il rimpatrio in conseguenza della deportazione.
Quella dei lavoratori della Pirelli Bicocca, al di là dei lager di destinazione in Germania, è stata la deportazione di massa più rilevante operata dai nazifascisti in una singola azienda, seconda solo a quella di 1500 lavoratori, effettuata in 4 fabbriche genovesi: San Giorgio, Siac, Piaggio e Cantieri navali, il 16 giugno 1944. Lo sciopero di protesta e di solidarietà del 23 novembre 1944 e la deportazione dei lavoratori della Pirelli concludono il ciclo di scioperi nell’area milanese, iniziati nel marzo 1943 e culminati con lo sciopero generale del marzo e con quello del 21 settembre 1944. Saranno gli scioperi preinsurrezionali del marzo e dell'aprile e lo sciopero insurrezionale del 25 aprile 1945 a chiudere il nuovo ciclo di lotte che culminerà con l'occupazione e la difesa delle fabbriche da parte degli operai sappisti in armi e con la Liberazione del Paese.
da
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La deportazione politica nell'area industriale di Sesto San Giovanni 1943-1945
di Giuseppe Valota
Edizioni GUERlNI E ASSOCIATI Milano 2007
Gli scioperi del marzo 1944
Lo sciopero generale attuato nel Nord Italia dall'1 all'8 marzo 1944 costituì l'atto conclusivo di una serie di agitazioni cominciate, in forme e modalità diverse, già nel settembre 1943, all'indomani della costituzione della Repubblica Sociale Italiana e dell'occupazione tedesca, e sviluppatesi soprattutto nei mesi di novembre e dicembre. Lo sciopero del marzo 1944 presentò tuttavia una sostanziale novità. Esso fu infatti caratterizzato da una precisa matrice di natura politica, mentre le precedenti agitazioni, seppur non prive di risvolti politici, erano state attuate sostanzialmente in un'ottica di tipo economico-rivendicativo e avevano avuto come scopo primario il miglioramento sia delle condizioni salariali, attraverso la richiesta di aumenti, sia della situazione alimentare.
Con lo sciopero generale del marzo 1944 invece «le lotte operaie assunsero un carattere differente» perché si configurarono come una precisa forma di lotta politica antifascista e antitedesca. Deciso su iniziativa dei comunisti e approvato, dopo qualche esitazione dei socialisti, anche dagli altri partiti che facevano parte del Comitato Nazionale di Liberazione, lo sciopero iniziò il 1° marzo nelle fabbriche del "triangolo industriale", si diffuse rapidamente e per più di una settimana, fino a quando non venne represso dai tedeschi e dalla polizia di Salò attraverso una massiccia azione di rappresaglia e di deportazione dei lavoratori, bloccò gran parte delle attività produttive del Nord Italia.
Secondo fonti repubblichine allo sciopero parteciparono complessivamente 208.549 operai. A Milano gli scioperanti erano stati 119.000 nell'arco di cinque giorni e a Torino 32.600 per tre giorni. Addirittura maggiore risultava per i tedeschi il numero di coloro che si erano astenuti dal lavoro. Poiché Hitler aveva ordinato di deportare in Germania il 20% degli scioperanti, l'ambasciatore tedesco presso la Repubblica Sociale, Rudolph Rahn, calcolò che tale percentuale corrispondeva a 70.000 persone. Ciò significava valutare gli astenuti dal lavoro in 350.000, cifra veramente imponente. Proprio il consistente numero di coloro che avrebbero dovuto essere deportati, che avrebbe potuto rivelarsi controproducente sul piano politico e avere conseguenze di rilievo sullo sviluppo della Resistenza, indusse poi i tedeschi a ridurre le deportazioni. Anche se «la cifra esatta» dei deportati «non si è potuta avere», non è tuttavia «improbabile che ammontasse a 1200». Occorre inoltre sottolineare che i lavoratori tennero, nella maggior parte dei casi, un atteggiamento fermo di fronte ai tentativi dei dirigenti politici e sindacali repubblichini di indurli a riprendere il lavoro, cedendo alla fine solo per la repressione tedesca.
Preso in considerazione nell'ottica della «dimostrazione politica», lo sciopero generale ebbe «una grandissima importanza».
Fu la più grande protesta di massa con la quale dovette confrontarsi la potenza occupante: attuata dimostrativamente senza aiuti dall'esterno, senza armi ma con grande energia e sacrifici. E non fu soltanto (assieme a quello dell'anno precedente) il più importante sciopero in Italia dopo vent'anni di dominio fascista, fu anche il più grande sciopero generale compiuto nell'Europa occupata dai nazionalsocialisti.
A ciò si deve aggiungere che «nella sottovalutazione del peso politico dello sciopero generale» non si è tenuto conto «a sufficienza del fatto che esso si svolgeva in un paese sottoposto alle leggi di guerra e dell'occupazione: più di 200.000 operai contemporaneamente in sciopero, dopo un inverno in cui le fabbriche erano state in continua agitazione, tranne che nel mese di febbraio, era un fatto di eccezionale rilievo e significato».Lo sciopero ebbe risvolti importanti anche nel favorire lo sviluppo della Resistenza perché, «dopo questa prima prova di forza condotta con armi diseguali», fece capire che «ormai il tempo degli scioperi era passato». La «scena dello scontro» quindi «si trasferì sui monti» e apparve chiaro che «soltanto la lotta armata delle bande partigiane contro gli occupanti avrebbe potuto avere successo». Non va inoltre dimenticato che le agitazioni diedero il colpo mortale alle speranze dei fascisti di Salò di "agganciare", attraverso la "socializzazione", i lavoratori.