Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"
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gli Italiani e l’8 settembre del 1943

27 Août 2023 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #il fascismo

l’8 di settembre 1943 la collettività italiana usciva da vent’anni di fascismo e di diseducazione politica, con l’aggravante, non secondaria, di una guerra irresponsabilmente mossa in uno scenario internazionale che congiurava a sfavore del nostro paese, intrapresa in condizioni estremamente precarie sul piano militare e con un consenso passivo, manifestato sotto il balcone del palazzo di piazza Venezia, da una folla incosciente del baratro che andava così aprendosi.

L’8 settembre è sospeso tra la tragedia di un collasso politico-istituzionale e la farsa che fece da corredo al disfacimento di quel che rimaneva di un regime che si voleva totale e totalitario.

Una intera generazione ne visse più direttamente gli effetti: i giovani coscritti, impegnati nella leva e dislocati nei diversi reparti militari, operanti in tutto lo scenario del Mediterraneo, subirono per primi le conseguenze del cambiamento di alleanze e della vacanza di comando.

Avviene lo sbandamento dei militari, il concreto esautoramento e il dissolversi delle figure di comando, la comprensione che i vecchi alleati diventavano i nuovi invasori, l’avvio di una vendetta per parte tedesca che sarebbe durata fino alla conclusione della guerra e che si sarebbe esercitata in prima battuta contro l’esercito ed immediatamente dopo contro la stessa popolazione.

Vi è come una linea di continuità tra date diverse: il periodo tra settembre e novembre del 1938, con l’emanazione e l’introduzione dei provvedimenti legislativi e amministrativi meglio conosciuti come “leggi razziali”, che segnarono la radicalizzazione del regime fascista; il 10 di giugno 1940, che segna l’entrata in guerra dell’Italia; il marzo del 1943 con i ripetuti scioperi, a carattere corale e con spiccata connotazione politica, nelle fabbriche del Nord; il 25 luglio 1943, con il ribaltone nel Gran Consiglio del fascismo, la caduta di Mussolini e l’eclissi del regime, l’abbandono e il tradimento che le classi dirigenti operarono nei confronti di coloro che avevano considerato sempre e solo come sudditi.

La fuga del re e dei suoi più stretti collaboratori, preceduta dalla scomparsa del fascismo-regime, l’abbandono al suo destino di Roma capitale per parte delle Forze Armate fu il totale fallimento di una politica di guerra faticosamente perseguita da Mussolini e dalla casa regnante.

Una varietà di reazioni ebbero reparti e uomini, chiamati dalla latitanza colpevole dei governanti alla scelta individuale: la resistenza o la resa, la collaborazione con i tedeschi o la fedeltà al re.

Da una parte vi è l’inettitudine e l’irresponsabilità di quanti erano alla guida politica e militare del paese, dal basso un esercito lasciato sì allo sbando, ma pronto in molti casi ad assumersi il peso delle scelte e, come nell’eccidio di Cefalonia o in tanti altri episodi, a pagarle fino in fondo. La reazione armata di questi militari si rivela una componente fondamentale della Resistenza italiana.

L’8 settembre è un vero e proprio spartiacque nella coscienza nazionale con episodi quali il rifiuto per parte delle nostre truppe di arrendersi all’ex-alleato, la reazione popolare contro la presenza tedesca in Roma, negli stessi giorni – soprattutto a Porta San Paolo, dove si ebbero scontri armati tra paracadutisti germanici e elementi militari e civili nostrani.

Il rapporto che i tedeschi stabilirono con il nostro paese dopo l’8 settembre fu l’asservimento della popolazione civile, lo sfruttamento e la rapina sistematica delle risorse e l’eliminazione fisica degli individui presi in ostaggio in totale spregio di qualsivoglia residuo diritto.

Due gli schieramenti che si formarono, interni alla guerra che era in atto nella nostra penisola: i neofascisti repubblichini da un lato, i partigiani dall’altro.

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Agosto 1943: Milano prese fuoco

13 Août 2023 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

«Italiani! Per ordine di Sua Maestà il Re e Imperatore assumo il Governo militare del Paese, con pieni poteri. La guerra continua. L'Italia, duramente colpita nelle sue provincie invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni. Si serrino le file attorno a Sua Maestà il Re e Imperatore, immagine vivente della Patria, esempio per tutti. La consegna ricevuta è chiara e precisa: sarà scrupolosamente eseguita, e chiunque si illuda di poterne intralciare il normale svolgimento, o tenti turbare l’ordine pubblico, sarà inesorabilmente colpito. Viva l'Italia. Viva il Re. Firmato: Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio, 25 luglio 1943».

Come ripeteva ossessivamente l'eco di questa frase badogliana, la guerra continuava. E con l'agosto le principali città italiane e soprattutto Milano entrarono in un girone infernale di fuoco e distruzione per lo scatenarsi dell'offensiva aerea alleata.

Dal 9 al 16 agosto, ogni notte Milano fu attaccata. E ogni volta non era possibile fare confronti con la furia devastatrice della notte precedente. Furono colpite tutte le zone della città. Il Duomo danneggiato, la Scala diventata un rogo, la Galleria sventrata, Palazzo Reale, Brera, l’Ospedale Maggiore, chiese, musei, fabbriche, case, monumenti distrutti. I binari del tram sradicatii.

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Macerie su macerie. Al mattino, le strade erano percorse da lunghe file di cittadini che arrivavano dalle località di sfollamento, spesso a piedi o in bicicletta, per vedere che cosa era rimasto della propria casa. Sostavano da lontano a osservare le macerie, i falò degli incendi che ardevano ancora qua e là durante la giornata. Dovunque c'era desolazione: crolli e rovine, cumuli di mobili accatastati sui marciapiedi, gruppi di donne e di uomini come inebetiti dall’enormità della tragedia. C'era chi si metteva a scavare tra le macerie sperando di salvare qualcosa. La Città era morta.

Le prime ombre rendevano ancora più atroce lo spettacolo. Le mura smozzicate delle case le occhiaie vuote degli edifici devastati, apparivano come fondali sinistri. A sera riprendeva l'esodo dei cittadini, con ogni mezzo di trasporto. Le vie si ripopolavano di cortei interminabili di ciclisti e di pedoni che recavano seco le massenzie per il pernottamento di fortuna. Poi la città diventava deserta, per un'altra notte.

«L'esodo delle moltitudini migranti sotto un cielo sempre pieno di minaccia» scriveva la cronaca del “Corriere” «è uno spettacolo d'indicibile commozione [...]. E una folla che, solo dopo una lunga resistenza, dopo un fatalismo ostinato, si è decisa a sottrarsi in tutta fretta alla selvaggia furia dei bombardamenti [...]. Nei borghi e nei villaggi ci sono generosi che un po' di posto lo offrono, restringendosi pieni di buona volontà e di fraterna sollecitudine. Ma gli esempi di gretto egoismo non mancano. Vi sono ancora case dalle porte indebitamente chiuse [...]».

Però era anche l'ora della bontà, della solidarietà cristiana. Ricordo solo un piccolo fatto: il parroco della Incoronata a Milano ospitò nella chiesa un buon numero di famiglie con le loro masserizie, trasformando il tempio in albergo, cucina, luogo di soggiorno, riparo. Mai l'Incoronata, come allora, fu la casa del Signore.

Nella confusione generale, il “Corriere” si era a sua volta trasformato in un centro di soccorso, almeno informativo, psicologico. I telefoni squillavano in continuazione, i rimasti in città chiedevano, volevano sapere. Il centralino passava le comunicazioni nel rifugio dove, a turno, eravamo accampati. Mottola e io restavamo di guardia insieme con due tipografi, sperando che arrivasse da un momento all'altro la notizia dell armistizio, pronti a mettere insieme un'edizione straordinaria. Dall'altro capo del filo, il più delle volte, c'era una voce di donna, e dal timbro si capiva che era una donna anziana che voleva sapere, ma soprattutto essere rassicurata, confortata. Ma che cosa potevamo risponderle?

Milano si sgretolava sotto i colpi dei bombardieri, andava in fiamme. Anche il teatro alla Scala fu colpito nella notte del 15 agosto. Era una notte di luna piena. Dal cielo certo si vedevano i tetti delle case, i selciati delle vie. La Scala venne presa in pieno: sembrava una Pompei.

 

Bibliografia:

Gaetano Afeltra – I 45 giorni che sconvolsero l’Italia. 25 luglio – 8 settembre 1943. Dall’osservatorio di un grande giornale –  Rizzoli Ed. 1993

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25 luglio 1943

22 Juillet 2023 , Rédigé par Renato Publié dans #il fascismo

La sera del 25 luglio 1943 alle ore 22 e 45 la radio annuncia che Mussolini è stato destituito e che il generale Badoglio, per incarico del Re, ha assunto il potere. Badoglio stesso legge il comunicato. Nel paese esplode il sentimento popolare di avversione per il regime, di entusiasmo, per la sua caduta, e la speranza di pace: nella notte la gente si riversa nelle vie e nelle piazze, i simboli del fascismo - statue e fregi, che hanno segnato il volto delle città italiane - sono divelti e distrutti.

Milano 26 luglio 1943 Roma 26 luglio 1943

 

A Milano la sede del partito fascista è incendiata, le case di alcuni gerarchi sono prese d'assalto. In realtà, a parte rari episodi, le violenze alle persone e alle abitazioni private furono molto limitate: si chiedeva invece con rabbia nelle piazze italiane la punizione degli uomini del regime e di Mussolini per primo, la confisca dei loro beni. Ma più ancora si chiedeva il pane, il lavoro e, soprattutto, la pace. La guerra era di fatto, e sempre più era sentita, come una guerra fascista. La caduta del fascismo veniva spontaneamente associata alla idea, alla certezza, che la guerra sarebbe finita.

E invece il generale Badoglio aveva pronunciato quelle parole, «la guerra continua ... l'Italia resta fedele alla parola data»: parole non prese in considerazione dagli italiani nel momento iniziale di euforia, ma che avrebbero dimostrato la loro pesante realtà. Perché, caduto Mussolini, la guerra continua?

A partire dall'autunno del 1942 - con la svolta decisiva nell'andamento della guerra - si avvertono i segni in Italia del distacco di tutti i centri di potere dal fascismo. Gli ambienti militari sono in fermento: l'insofferenza verso il fascismo è diffusa, la certezza della sconfitta incombe ormai sugli alti comandi, il mondo dell'economia, della grande industria e della finanza già inizia a ritessere rapporti con il capitalismo americano e preme sulla Corona per una liquidazione di Mussolini. Alcuni sondaggi verso gli inglesi sono stati già avviati alla fine del' 42. Gli americani guardano con favore ad ogni evoluzione della situazione italiana che porti il paese fuori dal conflitto e alleggerisca di conseguenza il peso delle operazioni militari in Europa. A questo fine la monarchia è un punto di riferimento obbligato, ben più dei partiti antifascisti e dell'antifascismo in esilio. Ma il sovrano, Vittorio Emanuele III, è diviso fra il desiderio di salvare la monarchia dissociandola dal fascismo, ponendo fine alla guerra, e il timore di compiere mosse che possano offrire a Mussolini il pretesto per liquidarlo e quindi temporeggia e aspetta che l'iniziativa venga dall'interno del fascismo stesso.

Il 19 luglio 1943 Roma subisce un pesante bombardamento: nei luoghi colpiti del quartiere San Lorenzo il Re è accolto con freddezza; il Papa Pio XII è acclamato dalla folla che invoca la pace.

Roma 19 luglio 1943

 

In quegli stessi giorni Mussolini incontra Hitler a Feltre e tenta di persuaderlo a sciogliere l'Italia dall'alleanza di guerra, in cambio della neutralità. Ma Hitler gli impedisce perfino di esporre il suo disegno: il Führer intuisce che il crollo del fascismo è imminente e predispone piani per l'occupazione militare della penisola nell'intento di impegnare il più a lungo possibile gli alleati su un fronte lontano dal suolo tedesco.

Il 20 luglio il capo di stato maggiore Ambrosio, che ha partecipato all'incontro di Feltre, riferisce ad alcuni gerarchi fascisti, Bottai e Federzoni che ormai guidano il dissenso, i risultati disastrosi del colloquio con Hitler. Il sovrano è messo al corrente. Una riunione del Gran Consiglio è stata fissata da Mussolini per le ore 17 del 24 luglio: è l'occasione per l'offensiva dei dissidenti. Dino Grandi predispone un ordine del giorno con il quale si invita il governo a «pregare la Maestà del Re, verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione affinché Egli voglia per l'onore e la salvezza della Patria assumere con l'effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell'aria, secondo l'articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione, che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono».

È in sostanza la sfiducia a Mussolini. L'ordine del giorno chiede a quel Gran Consiglio che Mussolini ha voluto inserire nella struttura costituzionale dello Stato a garanzia della continuità del fascismo, di liquidare il fascismo e il suo capo, restituendo al Re i poteri che lo Statuto gli assegnava. Il sovrano è informato dell'iniziativa. La riunione del Gran Consiglio si svolge in un clima di grande tensione. Racconta Grandi: «Palazzo Venezia, il cortile, lo scalone, l'anticamera della sala dove si riunisce il Gran Consiglio è presidiato (il che non è mai accaduto) da reparti della milizia fascista in pieno assetto di guerra». Grandi reca con sé due bombe. La seduta dura dieci ore. Alle 3 della notte l'ordine del giorno è messo in votazione e approvato a grande maggioranza con 19 voti. Mussolini ha in sostanza subìto l'iniziativa: la sua unica possibilità sarebbe stata quella di mobilitare la componente intransigente e filotedesca del fascismo e impedire il pronunciamento contro di lui. Ma così ne sarebbe rimasto del tutto prigioniero e non lo fa. Di fatto rimane passivo. Nel pomeriggio del 25 Mussolini è ricevuto dal Re che lo congeda; all'uscita da villa Savoia, con il pretesto di tutelare la sua persona, è fermato da alcuni ufficiali dei carabinieri e condotto a Ponza.

Il 25 luglio il fascismo non è caduto per iniziativa di popolo o dei partiti antifascisti: è caduto per una iniziativa di settori del fascismo stesso avallata dalla monarchia. Il colpo di stato è il frutto di una congiura, di cui Mussolini stesso, alla fine, ha percepito l'esistenza e che ha subìto passivamente. Tutto è nelle mani del Re e di Badoglio.

 

Torino 26 luglio 1943

 

L'obiettivo che monarchia e governo perseguono non ha nulla in comune con le speranze degli antifascisti dei vari colori: gli uomini del Re non dimostreranno neppure il coraggio di cui hanno dato prova i gerarchi che hanno preso l'iniziativa contro Mussolini. Il loro obiettivo è salvare la monarchia molto più che il paese. Temono soprattutto una degenerazione in senso rivoluzionario della crisi italiana: di fatto dopo la prima esplosione di entusiasmo le manifestazioni popolari hanno assunto un diverso significato. Le manifestazioni popolari diventano, già alla fine di luglio e poi sempre più nel mese successivo, specie nel nord, con epicentro a Milano, scioperi contro la guerra e per il pane. I partiti nel loro insieme non sono pronti ad assumere un ruolo politico di rilievo, lo assumeranno solo dopo l' 8 settembre ma alla base del paese agiscono già quadri militanti, soprattutto dei partiti di sinistra e dei sindacati di un tempo, che tendono a dare un carattere politico alla protesta popolare.

Il governo Badoglio aveva provveduto subito allo scioglimento del Partito Fascista, alla soppressione del Gran Consiglio e del tribunale speciale per la difesa dello Stato, sostituito dai tribunali militari; ma aveva mantenuto in piedi tutte le strutture e gli uomini dello Stato fascista: i prefetti erano rimasti ai loro posti, la legislazione fascista, anche quella razziale, non era stata abrogata. Le norme sulla censura solo in parte attenuate: sono ammesse solo limitate critiche al passato regime e vietata ogni manifestazione di ostilità al nuovo governo. Le porte delle carceri si erano aperte per i condannati politici ma con l'esclusione dei comunisti e degli anarchici, che solo più tardi saranno rilasciati.

Il timore di una insurrezione popolare e l'incubo del bolscevismo dominano i primi atti del governo. Le disposizioni dei comandi sono draconiane. Una famosa circolare, che segue immediatamente il colpo di stato del 25 luglio, firmata dal generale Roatta, è molto esplicita in questa direzione: «Nella situazione attuale, col nemico che preme, qualsiasi turbamento dell'ordine pubblico, anche minimo, e di qualsiasi tinta, costituisce tradimento [...]. Poco sangue versato inizialmente risparmia fiumi di sangue in seguito [...] si proceda in formazione di combattimento e si apra il fuoco a distanza, anche con mortai e artiglieria [...] Non è ammesso il tiro in aria; si tira sempre a colpire come in combattimento [...]» . Si ebbero più di 80 morti e oltre 1.500 feriti nei primi cinque giorni.

Mantenere l'ordine è l'obiettivo prioritario del nuovo governo. Si tende a rassicurare i tedeschi per evitare un loro intervento immediato e dare tempo alle trattative per l'armistizio. Una insurrezione popolare si rivolgerebbe contro la guerra e contro i tedeschi e si vuole impedirla ad ogni costo. Anche agli alleati, si vuole dimostrare che il paese è sotto controllo.

Le azioni di guerra, che hanno subìto una battuta d'arresto dopo il colpo di stato, riprendono nei giorni successivi: i bombardamenti alleati si intensificano. Bombardamenti crudeli e inutili di numerose città, su una nazione già sconfitta e prostrata, che aspirava solo alla pace, per piegare un governo che non ha determinazione e coraggio.

«Invano cerchi fra la polvere, povera mano. La città è morta». È la dolente voce di Salvatore Quasimodo nella poesia Milano, agosto 1943.

 

Milano-galleria-.gif Milano-1943.jpg

 

Invano cerchi tra la polvere,

povera mano, la città è morta.

È morta: s’è udito l’ultimo rombo

sul cuore del Naviglio. E l’usignolo

è caduto dall’antenna, alta sul convento,

dove cantava prima del tramonto.

Non scavate pozzi nei cortili:

i vivi non hanno più sete.

Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:

lasciateli nella terra delle loro case:

la città è morta, è morta.

 

da un articolo di Pietro Scoppola: “Dal 25 luglio all’8 settembre” in “Storie d’Italia. Dall’unità al 2000” Istituto Luce


Nella seduta del Gran Consiglio furono presentati tre ordini del giorno: quello di Grandi, quello di Scorza quello di Farinacci. Tutti e tre contenevano frasi di circostanza sulla situazione bellica e un incitamento contrastare l'invasione alleata in Sicilia. La differenza fondamentale fra i tre O.d.g. stava nell'invito di Farinacci a un urgente «ripristino integrale di tutte le funzioni statali» che preludeva a una dittatura di partito più stretta; nella richiesta di Scorza di «attuare quelle riforme ed innovazioni nel Governo, nel Comando supremo, nella vita interna del Paese» che consentissero un rafforzamento del partito; infine nell'invito di Grandi al capo del governo perché pregasse il re di assumere «con l'effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare e dell'aria, secondo l'articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione ch le nostre istituzioni a Lui attribuiscono».

Il richiamo, nel documento di Grandi, allo Statuto Albertino del 1848, e in particolare all'articolo cinque era diretto a ripristinare una precisa prerogativa del sovrano (l'articolo cinque dello Statuto recita: «Al re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il Capo Supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare: dichiara la guerra, fa i trattati di pace,).

qui sotto l’«atto di accusa» di Dino Grandi contro Mussolini, che provocò, sostanzialmente, la caduta del regime. La seduta del Gran Consiglio, iniziatasi alle ore diciassette del 24 luglio, si concluse dopo le 2 del 25 luglio.

 

Odg Grandi

 

 

 

 

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Roma 19 luglio 1943

16 Juillet 2023 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

1943 19 luglio Roma bombardata bombardamento roma 8 feriti-incursione-aerea.JPG

Le conseguenze furono terrificanti: la cifra esatta dei morti non si saprà mai - secondo Cesare De Simone (Venti angeli sopra Roma-Mursia, 1993) il numero dei deceduti va compreso tra i duemilaottocento e i tremila e seimila feriti, diecimila case in macerie o lesionate, quarantamila cittadini senza tetto. Si dice che al cimitero del Verano duramente colpito si scoperchiassero perfino i sepolcri: mentre i vivi venivano sepolti dalle macerie, i morti con i loro scheletri uscivano fuori dalle tombe. Situazione che ispirò a Giuseppe Ungaretti quella straordinaria poesia “cessate di uccidere i morti, non gridate più, non gridate / Se li volete ancora udire / se sperate di non perire”.

1943 Roma scalo san lorenzo bombardato bombardamento roma 13

Oggi una targa a terra nei giardini pubblici, lunga decine di metri, reca i nomi delle vittime identificate. I romani rimasero atterriti, perchè divenne lampante a tutti la scarsità delle misure esistenti a difesa della popolazione, l'insufficienza della controaerea italiana e in molti casi anche l'inesistenza di validi rifugi.

I veri eroi furono i vigili del fuoco che lavorarono in condizioni impossibili con la sola forza delle braccia e con pale e picconi, un eroismo umile e nascosto, ne morirono ventiquattro ed anche il comandante dei carabinieri generale Azzolino Hazon che era accorso sul posto. È rimasto nella memoria della città la visita del Papa nel pomeriggio stesso dell'evento Pio XII che si inginocchia davanti alle macerie della basilica di San Lorenzo e benedice la folla che gli si stringe intorno. Ben diversa l'accoglienza riservata al sovrano, la sua limousine fu fatta oggetto di sassate e di grida ostili che gli consigliarono un rapido dietro front mentre un coro di donne gli gridava: "non vogliamo le vostre elemosine, vogliamo la pace, fate la pace”.

1943 una via di Roma bombardata 1943 Papa Pio XII Roma bombardata

Il terrore era l'obiettivo politico che gli Alleati si proponevano di ottenere: e questo fu ampiamente ottenuto. Una settimana dopo il fascismo era franato, Mussolini destituito, l'Italia tornata nelle mani del re e del governo da lui nominato. Ma nei 45 giorni del governo Badoglio, impiegati in trattative segrete, si consumò il vero tradimento dell'Italia non nei confronti dell'alleato tedesco, nei confronti del popolo italiano che non si pensò in nessun modo di proteggere. Questa fu la vera tragedia dell'8 settembre, ma anche la sua grandezza. Come commenta Giorgio Bocca “il popolo restò abbandonato ma libero, ... libero di decidere finalmente di se stesso e da se stesso, cosciente che poteva fare a meno di re, di marescialli e di tutta quell'altra accolita che per anni aveva vissuto alle sue spalle”.

Anna Maria Casavola

Direttore responsabile editoriale

di “Noi dei Lager

 

Da “Noi dei Lager” pubblicazione dell’Associazione Nazionale Ex Internati di giugno 2013

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festa provinciale 2023

23 Juin 2023 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #varia

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6 giugno 1944: operazione Overlord, nome in codice dello sbarco in Normandia

4 Juin 2023 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

Il luogo dello sbarco dell’operazione Overlord fu scelto durante la conferenza Trident nel maggio 1943 a Washington: venne preferita la Normandia piuttosto che il Pas-de-Calais, in quanto le divisioni tedesche presenti in questa zona erano più numerose e soprattutto perché non vi erano spiagge e porti che consentissero un rinforzo rapido della testa di ponte.

Alla fine del mese di gennaio 1944, Eisenhower stabilì i mezzi che dovevano essere impiegati nell’operazione: tre divisioni aviotrasportate e cinque divisioni trasportate via mare (due americane e tre inglesi). La zona di sbarco si doveva estendere per circa 60 chilometri, dall’estuario del fiume Orne alla costa orientale del Cotentin. Durante la notte precedente l’operazione anfibia, le divisioni aviotrasportate dovevano coprire tutto il settore di sbarco al fine di proteggerlo ai suoi fianchi.

La scelta della Normandia per l’operazione Overlord consentì di ingannare i tedeschi. Con l’operazione Fortitude, lanciata dagli Alleati, si fece credere ai tedeschi ad uno sbarco nel Pas-de-Calais, bloccando così alcune divisioni tedesche in quest’ultimo settore.

D-DAY Sbarco per la vittoria

La decisione di attaccare i nazisti in Normandia porta la data del 6 giugno 1944. Alle 9.33 del mattino le agenzie americane lanciano il primo flash sullo sbarco. Ma per mettere in ginocchio la Germania il prezzo è altissimo: diecimila morti nelle prime 24 ore.

 

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Articolo di Silvio Bertoldi

«Overlord», il Signore: questo è il nome che americani e inglesi hanno scelto per indicare l'operazione di sbarco sul Continente. «Overlord» comincerà quando verrà il momento del D-Day, il Decision Day, o giorno della decisione. Il D-Day viene il 6 giugno 1944, alle 6.30 del mattino, tra nuvole basse e mare di onde lunghe e scure: 2727 navi mercantili, 700 da guerra, 2500 mezzi da sbarco, 1136 aerei inglesi (tra cui una formazione agli ordini del famigerato generale Harris che distruggerà Dresda senza un perché), 1083 aerei americani. Il fronte corre da Le Havre a Cherbourg in Normandia. Una sorpresa per i tedeschi che aspettavano l'attacco sulla Manica, al Pas de Calais, e non vogliono ammettere di essersi sbagliati. Cinque i punti di sbarco, classificati con nomi di fantasia: «Utah» o «Omaha» di pertinenza degli americani a occidente, «Gold», «Judno» e «Sword» per gli inglesi a oriente. Un giorno intero di battaglia sanguinosissima ed è inutile illudersi di salvare il soldato Ryan: di soldati Ryan ne moriranno circa diecimila nelle prime ventiquattr'ore, il prezzo tremendo (peraltro previsto) pagato per una testa di ponte in Europa dopo quattro anni di guerra. Il colpo decisivo per mettere in ginocchio la Germania e sollevare l'Urss dal sostenere da sola il peso del conflitto. Torna alla memoria la promessa di Churchill nella drammatica notte del 2 agosto 1940, quando tutto sembrava perduto: «Ricordate: non ci fermeremo, non ci stancheremo mai, non cederemo mai; l'intero nostro popolo e l'Impero si sono votati al compito di ripulire l'Europa dalla peste nazista e di salvare il mondo dal nuovo Medioevo... e il mattino verrà».

Quel mattino è venuto. È cominciato poco dopo la mezzanotte del 5 giugno, quando sono partiti 60 incursori con il compito di segnalare le zone di atterraggio ai 72 alianti lanciati su Caen, precedendo le divisioni di paracadutisti dei generali Taylor e Ridgway: gli stessi che l'8 settembre sarebbero dovuti scendere su Roma, se un terrorizzato Badoglio non li avesse scongiurati di soprassedere. Poi è toccato alle due Armate, la prima americana di Bradley e la seconda inglese di Dempsey, entrambe agli ordini di Montgomery, l'eroe partito da El Alamein, che ha giurato di concludere la sua corsa solamente a Berlino. Come sarebbe in effetti avvenuto, se ragioni politiche non avessero costretto Eisenhower a imporgli di lasciare la precedenza ai russi.

Alle 9.33 del mattino del 6 giugno le agenzie di stampa americane avevano lanciato il primo flash con l'annuncio dello sbarco, poi era stato letto il proclama di Eisenhower ai soldati. Il generale non aveva fatto economia di parole ed era ricorso a quello che riteneva il tono epico adatto alla circostanza. ...

A Londra, alla Camera dei Comuni, a mezzogiorno Churchill stava illustrando la presa di Roma, avvenuta due giorni avanti. Un segretario gli passò un biglietto, lui lo lesse e, senza alterare il tono della voce, annunciò che la battaglia per liberare l'Europa dal nazismo era cominciata e con l'aiuto di Dio sarebbe continuata fino alla vittoria. Quella sera stessa le truppe alleate erano saldamente attestate nell'entroterra della Normandia e prendeva il via la lunga cavalcata che le avrebbe condotte all'Elba, dopo che Patton ebbe distrutta a Bastogne l'estrema speranza di Hitler di rovesciare la situazione.

Come fu vissuta l'avventura dalle due parti? Il giorno dello sbarco Rommel, capo dell'armata tedesca stanziata in Normandia, non si trovava al suo comando di La Roche-Guyon. Fidando nell'inclemenza del tempo, che lasciava pensare a tutto tranne alla possibilità di uno sbarco, era partito in automobile per la Germania. Andava a festeggiare il compleanno della moglie e le portava in regalo un paio di scarpe francesi. Lo avvertì Speidel, il suo capo di Stato Maggiore e si precipitò verso Parigi a tappe forzate. Capì subito che per tamponare la falla si dovevano spostare le divisioni del Nord verso la zona di Cherbourg, ma per questo occorreva il consenso di Hitler. Il Führer stava dormendo e l’ordine categorico era di non svegliarlo prima di mezzogiorno. Così seppe dello sbarco con dieci ore di ritardo e anzi non volle credere che si trattasse dello sbarco vero, bensì di una manovra degli Alleati, un diversivo a scopo di disturbo. Negò a Rommel di disporre delle truppe richieste e in tal modo diede al nemico una chance di successo mai immaginata. Qualche tempo prima Rommel aveva detto che, quando fosse cominciata la battaglia di Normandia, quello sarebbe stato «il giorno più lungo». Non azzeccò la previsione. Il 6 giugno non fu il giorno più lungo, al cadere della sera era praticamente terminato, con gli Alleati vittoriosi sulla costa.

Per Eisenhower il problema era diverso, legato soprattutto alle condizioni meteorologiche. Dopo una preparazione durata mesi, aveva deciso di attaccare il 5 giugno, perché in quel giorno si presentavano le condizioni ideali di luna, di marea e di vento che, se lasciate passare, si sarebbero ripetute soltanto il mese successivo. Non si poteva restare tanto tempo in sospeso, dunque o subito o chissà quando. Ma una bufera implacabile cominciò a imperversare sulla Manica e rese impossibile la partenza delle navi. Già da venerdì 2 giugno si erano scatenati gli elementi e fu necessario rinviare. Dopo lunghe ore di attesa spasmodica il meteorologo inglese, colonnello Stagg, la sera del lunedì annunciò che il 6 mattina si sarebbe presentata la possibilità di uno spiraglio di qualche ora. Si trattava di cogliere quella problematica occasione, con il pericolo che tutto cambiasse di nuovo. Eisenhower decise di rischiare. Le truppe erano imbarcate da giorni, non era possibile tenerle ancora «prigioniere» nelle navi. Vi fu un'ulteriore consultazione e poi, sulla fede nelle previsioni di Stagg, l'annuncio: «OK si parte». Era il D-Day, il giorno della decisione.

Stagg, l'oscuro eroe della grande avventura, aveva lavorato senza un attimo di sosta per decifrare le sue carte del tempo e indovinare il momento magico per l'attacco. Così era avvenuto, la schiarita c'era stata. Quando le navi furono partite e i comandi svuotati diventarono silenziosi, Stagg si ritirò nel suo accantonamento, si gettò vestito su una branda e dormì dodici ore filate.



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Sbarco in Normandia 1 Sbarco in Normandia 2 Sbarco in Normandia 3 Sbarco in Normandia 4 Sbarco in Normandia 5 Sbarco in Normandia 6 Sbarco in Normandia 7 Sbarco in Normandia 8 Sbarco in Normandia 9 Sbarco in Normandia 10 Sbarco in Normandia 11

 

 

Bibliografia:

supplemento del “Corriere della Sera” - dicembre 1999

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La liberazione di Roma, 4 giugno 1944

4 Juin 2023 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

1944-Montecassino-bombardata.jpg 1943 dicembre CIL Montecassino

Due giorni dopo la conquista di Cassino e dell'Abbazia, nel settore meridionale del fronte, il II Corpo americano attaccava la linea «Hitler» presso Formia e in direzione di Fondi. Altrettanto facevano algerini e marocchini sui monti Aurunci, mentre nel settore settentrionale il Corpo britannico e quello polacco combattevano aspramente a Pontecorvo e Piedimonte.

Cinque giorni dopo anche la linea «Hitler» era infranta e le Armate alleate potevano avviarsi verso Roma: l'VIII per la via Casilina e la V per la via Appia. Una Divisione americana si dirigeva lungo la costa verso la testa di ponte di Anzio, dove il VI Corpo angloamericano forte come un'Armata, il 23 maggio aveva iniziato l'offensiva.

1944 alleati in Anzio 

L'attacco principale venne sferrato verso i Colli Albani e verso Velletri, occupata qualche giorno dopo, mentre Alexander aveva ordinato di tagliare la ritirata nemica sulla via Casilina puntando in forze su Valmontone. Clark invece preferì insistere in direzione di Roma, e Valmontone fu presa solo il 2 giugno, dopo che i tedeschi avevano completato il ripiegamento. La città di Littoria era stata liberata dall'unica colonna americana, appena un reggimento, che dalla testa di ponte di Anzio s'era diretta verso sud, incontro alla V Armata in arrivo dal fronte del Garigliano. Il ricongiungimento avvenne a Borgo Grappa il 25 maggio. Nella gioia dell'incontro si dimenticava ch'esso si era fatto attendere quattro mesi più del previsto.

Clark disponeva di una formidabile piattaforma per il lancio finale su Roma. È alla capitale ch'egli continuava a guardare, più che alla manovra di aggiramento chiesta da Alexander. Voleva arrivarci prima degli inglesi perché la nuova vittoria su Hitler portasse il suo nome. Per i tedeschi fu un colpo di fortuna. Essi non speravano che gli Alleati, per un motivo di prestigio personale, rinunciassero a cogliere, con un colossale accerchiamento, i frutti della vittoria. Scampati alla trappola di Valmontone, i tedeschi abbandonavano Roma con ogni mezzo, mantenendo sgombre le strade su cui si ritiravano le Divisioni di Cassino. Avevano perso molti uomini, ma avevano salvato l'esercito. Proprio l'ultimo giorno vollero lasciare un altro ricordo di sangue. Alle porte della città, in frazione La Storta sulla via Cassia, per alleggerire un automezzo, assassinarono 14 prigionieri politici fra cui il vecchio sindacalista Bruno Buozzi. Poi risalirono sui camion e ripresero più in fretta la ritirata verso nord.

Il generale Clark rievoca il giorno della presa di Roma:

1944 alleati Roma 1944 giugno Roma porta Maggiore 

«La maggior parte della gente non collega la data del 4 giugno (giorno in cui entrammo a Roma) con lo sbarco del generale Eisenhower in Normandia, ma le due operazioni erano coordinate, e mi era stato dato l'ordine di conquistare Roma, se fosse stato possibile, subito prima dello sbarco di Eisenhower. Sicché combattemmo con tutto l'impegno e ce la facemmo appena in tempo. Naturalmente, volevamo essere la prima Armata che liberava una delle capitali dell'«asse»; ciò avrebbe sollevato il morale degli Alleati e anche degli italiani. Sicché fu con profonda emozione che ci avvicinammo a Roma, e il giorno in cui vidi le mie truppe marciare verso la città, e fui testimone del modo cordiale con cui vennero accolte dalla popolazione, fu un giorno particolarmente felice. Il 5 giugno entrai anch'io in Roma con la mia "jeep" per la via Casilina. Non eravamo molto pratici della città; il generale Hume, che era con noi, aveva suggerito che il Campidoglio sarebbe stato il luogo adatto per incontrarmi con i miei comandanti di Corpo d'Armata.

Nelle vie erano gaie folle, molti cittadini agitavano bandiere. I romani sembravano impazziti d'entusiasmo per le truppe americane. Il nostro gruppetto di "jeep" errava per le vie, ma non riuscivamo a trovare il colle capitolino. Ci eravamo smarriti. A un tratto ci trovammo in piazza San Pietro e un prete si fermò accanto alla mia "jeep" e disse in inglese: "Benvenuto a Roma. Posso esservi utile in qualche modo?».

1944-4-giugno-Alleati-a-Roma.JPG

«Gli chiesi la strada per il Campidoglio. Là intendevo discutere i nostri piani immediati. Volevamo spingerci immediatamente oltre Roma per inseguire il nemico e prendere il porto di Civitavecchia. Quando fummo in piazza Venezia davanti al balcone dal quale Mussolini soleva fare i grandi discorsi, una folla plaudente ci bloccò. Finalmente ci aprimmo un varco e salimmo sul colle. Il portone del Campidoglio era chiuso; io bussai parecchie volte, non sentendomi molto conquistatore di Roma. Mentre si bussava, pensai che quella era per noi una giornata storica. Avevamo vinto la corsa di Roma per soli due giorni».

giugno-44-alleati-a-Roma.jpg romani con fanti americani 

Chi nella capitale ha dimenticato quel giorno? Era la libertà, dopo nove mesi di angoscia e di disperazione. S'affacciava un mondo nuovo, si ricominciava a vivere.

A Roma l'appuntamento col Papa è una tacita consuetudine, quando accade qualcosa d'importante. Ma il pomeriggio del 5 giugno i romani andarono da Pio XII anche per un atto di gratitudine. Tutto in quei giorni era all'insegna della fede nell'avvenire. Ogni occasione era buona per affollare le piazze con bandiere, applaudire, gridare e sfilare in corteo proclamando i propri ideali. Gli Alleati assistevano sbalorditi, ed erano come travolti dall'urto caotico delle passioni politiche che esplodevano dopo tanto tempo.

Nella confusione scoppiarono anche disordini. In Piazza Venezia, dove la gente si raccoglieva più folta che altrove, si sfondarono i cancelli del palazzo delle Assicurazioni Generali in cerca di franchi tiratori inesistenti. La polizia alleata fu costretta ad intervenire con bombe lacrimogene.

Il 6 giugno la notizia dello sbarco in Normandia. È finalmente il secondo fronte, che porterà al tracollo della Germania; e intanto in Russia le Armate sovietiche incalzano. Di fronte alla grandezza degli avvenimenti, l'episodio dei franchi tiratori che, da una casa di via Appia Nuova, hanno aperto il fuoco contro i patrioti e i soldati americani, appare un inutile atto di rabbia e di vendetta. Ogni giorno nuove prove della violenza subita vengono alla luce. Finora Roma non sapeva ancora chiaramente delle Fosse Ardeatine, dove in marzo i tedeschi avevano massacrato per rappresaglia 335 detenuti politici. Adesso era un accorrere di parenti, di amici, di compagni di lotta.

Unità clandestina 30 marzo 1944

L'orrore era pari alla disperazione delle madri.

Il Luogotenente, che intuiva la precarietà del momento, venne a Roma pochi giorni dopo la liberazione. Forse contava su qualche gesto di simpatia da parte dei romani. Ma la sua visita improvvisa passò quasi inosservata, e Umberto tornò a Napoli deluso. Come si era stabilito in aprile, il governo arrivava a Roma dimissionario, e a Badoglio subentrò Ivanhoe Bonomi che raccolse intorno a sé uomini designati dai sei partiti antifascisti. La lotta contro i tedeschi rimaneva il primo punto del programma di governo.

Oltre Roma la guerra continuava senza slancio. Ma Alexander e Clark, tornati amici dopo la contesa per Valmontone, erano ottimisti. Alexander rivolse un proclama alle truppe: «Questa battaglia, di cui è terminata la prima fase, è stata un successo magnifico. Come dicono i francesi: " Une belle victoire". La conquista di Roma è in se stessa naturalmente un grande avvenimento. Ha un grande valore morale, un grande valore politico. Ma come obiettivo militare non ha che scarsa importanza. Ciò che veramente importa è il fatto che noi stiamo compiendo quello che ci eravamo prefissi di fare, e cioè annientare sul campo le Armate tedesche. Il nemico è in uno stato di totale disorganizzazione, avendo subìto gravissime perdite, tanto che i prigionieri sono oltre 20.000 e ci sono 8.000 tedeschi feriti ricoverati a Roma, oggi, in questo momento. Molti di più giacciono morti sui campi di battaglia. Le perdite del nemico sono state dunque molto gravi, esso è disorganizzato. E noi lo stiamo inseguendo». 

Bibliografia:

Manlio Cancogni in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966

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2 giugno: festa della Repubblica

28 Mai 2023 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #varia

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2 giugno 1946: il primo referendum che ha cambiato l´Italia. Monarchia o Repubblica?

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Di fronte al quesito secco, due opzioni antitetiche, oltre 12 milioni di italiani scelsero di cambiare. E con un margine di due milioni di voti sui monarchici nacque la Repubblica Italiana.

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Voti

 

 

 

%

 

 

 

MONARCHIA

 

 

 

10 718 502

 

 

 

45,70%

 

 

 

REPUBBLICA

 

 

 

12 718 641

 

 

 

54,30%

 

 

 

bianche/nulle

 

 

 

1 509 735

 

 

 

 

 

 

 

Totale voti validi

 

 

 

23 437 143

 

 

 

100%

 

 

 

 

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8 maggio 1945: in Europa la guerra è finita

7 Mai 2023 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

IL-TEMPO-8-maggio-1945.jpg

 C'è una fotografia che ritrae dei bambini intenti a giocare con armi e proiettili sparsi sul terreno, nel cortile di un grande caseggiato. E' finita.

Nel bunker della Cancelleria, a Berlino, Hitler ha ucciso Eva Braun, poi si è sparato. Ha voluto che anche il suo cane prediletto, Blondi, venisse abbattuto. Poi, i camerati hanno bruciato i corpi di Adolf e della moglie.

 

La Repubblica di Salò non ha vissuto che diciotto mesi.

Mussolini non ha molte illusioni; confida al prefetto Nicoletti: «I tedeschi perdono sempre un'ora, una battaglia, un'idea». Il cardinale Schuster, che riceve Mussolini in Arcivescovado, lo descrive come «un uomo senza forza di volontà che muove incontro al suo fato senza reazione».

Alle 16.20 del 28 aprile, a Giulino di Mezzegra, davanti al cancello arrugginito di una villa, cadono fucilati Benito Mussolini e la sua amante Clara Petacci, che ne ha voluto condividere il destino.

Il 7 maggio il Grande Reich firma l'atto di resa senza condizioni: al posto del Führer comanda l'ammiraglio Donitz, eletto suo successore.

A Berlino si contano cinquemila suicidi. Sono arrivati quelli dell'Armata Rossa e non guardano tanto per il sottile, ma dicono le donne che ricordano i terribili bombardamenti: «Meglio un russo sulla pancia che un americano sulla testa».

Il 6 agosto, gli americani sganciano la prima atomica su Hiroshima, tre giorni dopo tocca a Nagasaki: due lampi accecanti, che sviluppano una temperatura di milioni di gradi, diecimila volte più del sole.

Si contano le perdite: l'URSS raggiunge la cifra enorme di 37 milioni, di cui 12 sono i caduti. Più di settantamila città e villaggi risultano distrutti, 30 mila fabbriche sono in rovina, 25 milioni di persone sono senza casa.

Gli americani non arrivano, tra morti e dispersi, a 400 mila; i francesi, tra prima e dopo l'armistizio, 275 mila; gli inglesi 330 mila; l'Italia ha avuto, tra militari e civili, 309.453 morti e 135.070 dispersi. Le perdite tedesche sarebbero state di 2.250.000 caduti e di un milione e mezzo di dispersi. Il Giappone, tra feriti, dispersi e deceduti, circa 1.500.000 uomini; la Polonia oltre un milione di soldati uccisi, e cinque milioni di cittadini, dei quali tre sono ebrei.

L'Italia ha avuto tra militari e civili trecentocinquantamila morti e centotrentamila dispersi, settecento chilometri di ferrovia sono distrutti o danneggiati, ha perso un milione e novecentomila vani e più di diecimila tra ospedali, cinema, alberghi e teatri, più di quarantaduemila chilometri di strade sono impraticabili, 19 mila ponti risultano abbattuti, novecento dieci acquedotti non funzionano più. Mancano 28 mila chilometri di linee elettriche. 
Secondo una stima americana, il costo totale della seconda guerra mondiale sarebbe stato di 1.154.000.000.000 di dollari, di cui 94.000.000.000 pagati da noi. Sono pochi i mutamenti territoriali: la Cecoslovacchia cede all'Unione Sovietica l’Ucraina Sub-carpatica, la Polonia raggiunge l’Oder Neisse, e divide la Prussia orientale con Mosca, alla quale cede una zona di confine, compresa Brest-Litovsk.

Un orologio di Hiroshima,

 

coi numeri quasi cancellati, fuso dal calore, e le lancette che segnano le 8.16.

Un marinaio a Manhattan, sulla Times Square, si butta su un'infermiera della Croce Rossa per baciarla, e celebrare così la sconfitta del Giappone.

Poi, una frase di Georges Bernanos, che vale per tutti i superstiti: «Ci sono tanti morti nella mia vita, ma più morto di tutti è il ragazzo che fui io». 

Finita la guerra: i bambini giocano con i residuati bellici. Il progresso tecnologico non ha reso il conflitto meno feroce. E sembrato anzi che, insieme agli aerei velocissimi, all'atomica, ai missili, al radar sia stata la barbarie la protagonista su tutti i fronti.

Da “la Seconda guerra mondiale – Parlano i protagonisti” di Enzo Biagi – Corriere della Sera 1980

cimitero americano a Omaha Beach (Normandia)


 

cimitero polacco a Montecassino

ATTO DI RESA MILITARE TEDESCA

Firmato a Reims alle ore 2:41 del 7 Maggio 1945

Noi sottoscritti, in virtù dell'autorità conferitaci dall'Alto Comando Tedesco, dichiariamo al Supremo Comando delle Forze di Spedizione Alleate e contemporaneamente all'Alto Comando Sovietico, la resa incondizionata di tutte le forze armate di terra, di mare e dell'aria che a questa data sono sotto il controllo Tedesco.

L'Alto Comando Tedesco invierà immediatamente a tutte le proprie autorità militari terrestri, navali ed aeree e a tutte le forze sotto il suo controllo, l'ordine di cessare ogni operazione militare attualmente in atto a partire dalle 23:01, ora dell'Europa Centrale, dell' 8 Maggio e di rimanere nelle posizioni in cui si trovano in quel momento. Nessuna nave dovrà essere deliberatamente affondata, né dovranno essere arrecati danni agli scafi, alle macchine o alle attrezzature di bordo e nessun aereo dovrà essere volontariamente distrutto o danneggiato.

L'Alto Comando Tedesco provvederà attraverso i propri Comandanti, ad assicurare che venga prontamente eseguito ogni ulteriore ordine impartito dal Comando Supremo delle Forze di Spedizione Alleate e dall'Alto Comando Sovietico.

Questo atto di resa militare potrà essere integrato da successive condizioni di resa globale da imporre alla Germania per conto delle Nazioni Unite.

Nel caso in cui l'Alto Comando Tedesco od ogni altra forza militare sotto il suo controllo non ottemperi a quanto stabilito da questo Atto di Resa, il Comando Supremo delle Forze di Spedizione Alleate e l'Alto Comando Sovietico adotteranno i provvedimenti che riterranno più opportuni.

Firmato a REIMS, in Francia, alle ore 02:41 del 7 Maggio 1945

In rappresentanza dell'Alto Comando Tedesco: Alfred JODL

ALLA PRESENZA DI:

In rappresentanza del Comando Supremo Alleato: Walter Bedell SMITH

In rappresentanza dell'Alto Comando Sovietico: Ivan SOUSLOPAROV

In qualità di Testimone: François SEVEZ (Generale dell'Esercito Francese)
 

 



 
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Ritorno a Sestri Levante 2 aprile 2023

4 Avril 2023 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

Domenica 2 aprile una delegazione della nostra Sezione è stata presente a S. Margherita di Fossa Lupara (Sestri Levante) alla manifestazione per commemorare i caduti della vallata di S. Vittoria e frazioni. Tra i partigiani fucilati in quella località, il nostro concittadino Arturo Arosio

L'intervento di Stucchi, Presidente della Sezione ANPI di Lissone: 

"Gentili Autorità, cari concittadini,

la presenza della sezione ANPI di Lissone alla commemorazione odierna non è soltanto un doveroso omaggio alla memoria dei partigiani. Non siamo venuti qui soltanto con lo sguardo rivolto al passato e neppure soltanto per l’amicizia sempre più stretta che ci lega a questa città e in particolari ai carissimi compagni dell’ANPI di Sestri Levante.

Siamo qui con la ferma convinzione che non è in gioco solo il significato del passato, ma anche quello del presente e del futuro. I valori dell’antifascismo e della Costituzione sono oggi più che mai attuali e anche per questo prendiamo atto con profondo disappunto dell’assenza dell’Amministrazione Comunale della Città di Lissone. La Costituzione nata dalla Resistenza, infatti, non è e non dovrebbe essere considerata l’espressione di una parte politica, ma la base istituzionale della legittimità e delle attività di tutte le amministrazioni della Repubblica: Comuni, Province, Regioni e Stato.

Oggi questa verità è ancora più urgente. La cronaca ci mette di fronte troppo spesso a nuove intolleranze, a nuovi fascismi, a nuove prevaricazioni. Il recente assalto alla sede della CGIL è solo uno dei tanti episodi che ci richiamano alla difesa intransigente dei valori democratici. Non si possono tollerare gli intolleranti e i valori di uguaglianza e di libertà della Costituzione nata dalla Resistenza devono essere difesi e protetti con tutta l’energia necessaria. Per questo non è ammissibile che, proprio da parte di alcune tra le più alte cariche istituzionali della Repubblica, sia partito in questi giorni un vero e proprio attacco al significato dell’attentato di via Rasella e della strage delle Fosse Ardeatine.

Anche la pace è un valore costituzionale. Conosciamo tutti l’articolo 11 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Ma da più di un anno la guerra infuria alle nostre porte. Sappiamo bene quali siano le gravi responsabilità della Russia di Putin. Ma questo non ci impedisce di respingere l’idea che la soluzione della crisi passi solo per le vie militari. La prima preoccupazione, anzi, dovrebbe essere quella di evitare un’estensione e una radicalizzazione del conflitto. Occorrono equilibrio e intelligenza. Il diritto del popolo ucraino a resistere deve essere accompagnato da uno sforzo della comunità internazionale ad avanzare mediazioni e compromessi che inducano le parti a deporre le armi. È ancora l’articolo 11 a obbligare l’Italia su questa strada, a favorire le organizzazioni internazionali che assicurino la pace e la giustizia tra le Nazioni, per dirla con le parole dell’artico 11. Anche senza mettere in discussione l’appartenenza alla NATO, non possiamo perciò illuderci che un’organizzazione eminentemente militare sia lo strumento privilegiato per la ricerca della pace.

Infine, è sempre la stella polare della Costituzione nata dalla Resistenza che ci ha mobilitato per la raccolta di firme per la proposta di legge di iniziativa popolare per la modifica degli articoli 116 e 117 della Costituzione che oggi, dopo essere stati imprudentemente modificati nel 2001, vengono usati per rompere l’unità sostanziale della Repubblica in nome della cosiddetta autonomia differenziata. La valorizzazione delle autonomie locali non è in discussione, ma non può significare sottrarre risorse ai territori che ne hanno più bisogno. Proprio l’articolo 2 della Costituzione richiede l’adempimento degli “inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale” che sono uno dei più profondi insegnamenti dei partigiani che oggi siamo qui a celebrare.

Viva l’Italia, viva la Repubblica una e indivisibile, viva la Resistenza!"

 

 

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