Umberto Viganò: internato in Germania per aver scioperato
Umberto Viganò era nato a Biassono il 10 aprile 1908 e risiedeva a Lissone. Umberto, operaio specializzato alla Pirelli, aveva sposato la sorella di Pierino Erba, fucilato in Piazza Libertà a Lissone il 16 giugno 1944.
Il 23 novembre 1944 in seguito ad uno sciopero viene arrestato con altri 160 compagni di lavoro. Subito dopo l’arresto viene tradotto al carcere di San Vittore, a Milano, dove rimane fino al 29 novembre.
Racconta la moglie di Umberto, Giovanna Erba, allora madre di due bambine – una di 2 anni e l'altra di due mesi: «non mi ero ancora ripresa dalla perdita di mio fratello Pierino, quando la sera del 23 novembre, preoccupata per il ritardo di mio marito dal lavoro, mi son vista arrivare in casa un suo collega. Mi portava la notizia che, nello stesso giorno, c'era stato un rastrellamento alla Pirelli e 160 operai, tra i quali mio marito, erano stati prelevati dal lavoro per essere deportati in Germania». «I cinque giorni nei quali mio marito, coi suoi compagni di lavoro, è stato rinchiuso nel carcere di San Vittore, col pericolo d'essere vittima di una rappresaglia sono stati tremendi. Così come sono stati tremendi i momenti della partenza dallo scalo Farini per la Germania: centinaia di familiari ammassati in attesa dei pullman provenienti dalle carceri, un clima di tensione esasperata che avrebbe potuto degenerare, i soldati tedeschi che ci respingevano lontano. Questi giorni sono stati per me un incubo e li ho ancora chiari nella mente e nel cuore».
Umberto Viganò viene internato nel campo di concentramento di Beesem, a circa 100 km da Desdra.
Ogni giorno, a piedi, insieme a centinaia di altri prigionieri italiani, malnutriti, deve raggiungere Schkopau, una città a 5 chilometri dal lager, per essere impiegato come lavoratore coatto in una delle più importanti fabbriche chimiche del Reich, la Buna-Werke, in cui si lavora a pieno ritmo per l’industria bellica del Reich.
Liberato dagli Americani nell’aprile del 1945, ritorna in Italia 19 giugno del 1945, provato e in cattive condizioni fisiche che richiedono mesi e mesi di cure.
Il proclama Alexander
Il 13 novembre 1944 la radio «Italia combatte» trasmetteva il proclama del generale Alexander dedicato ai «patrioti al di là del Po»: «La campagna estiva, iniziata l'11 maggio e condotta senza interruzione fin dopo lo sfondamento della linea gotica, è finita. Inizia ora la campagna invernale». In conseguenza di questa nuova fase bellica i patrioti avrebbero dovuto «cessare la loro attività precedente per prepararsi alla nuova fase di lotta e fronteggiare un nuovo nemico, l'inverno» e avrebbero dovuto eseguire le seguenti istruzioni:
1) Cessare le operazioni organizzate su larga scala;
2) conservare le munizioni e i materiali e tenersi pronti a nuovi ordini;
3) attendere nuove istruzioni che verranno date o a mezzo radio «Italia combatte» o con mezzi speciali o con manifestini. Sarà cosa saggia non esporsi in azioni troppo arrischiate: la parola d'ordine è: stare in guardia, stare in difesa ...
Il proclama non diceva esplicitamente di «tornare a casa», è vero; anzi nella conclusione accennava all'«opportunità» di continuare nella guerriglia e nel sabotaggio «purché il rischio non fosse troppo grande». ... il modo era il più infelice: un proclama radio che annunciava non solo ai partigiani, ma anche al nemico l'intenzione di rinviare ogni azione offensiva a primavera e di lasciarlo indisturbato sul fronte. Riguardo al momento, non si poteva sceglierne uno meno adatto, poiché il proclama giungeva nel pieno della controffensiva tedesca. ...
il generale Alexander, non solo dava «mano libera» ai tedeschi verso la Resistenza italiana, ma suscitava nell'interno di questa i più gravi dubbi sulle prospettive future ...
Nel giro di una settimana non rimase più un angolo dell'Italia partigiana che non fosse sconvolto, messo a ferro e a fuoco dai rastrellamenti: almeno la metà delle forze tedesche e tutte le forze repubblichine, furono impegnate contemporaneamente e in tutti i settori per schiacciare la Resistenza.
Alla fine di novembre 1944 viene catturato l'intero Comando GL piemontese, ucciso Duccio Galimberti; la stessa sorte subiva il Comando regionale veneto, e poi quello ligure. In Lombardia cadeva il comandante della piazza di Milano Sergio Kasman, venivano arrestati quasi tutti i tecnici militari del CVL e infine gli stessi dirigenti: il rappresentante liberale (Argenton) quello dc (Mattei) e lo stesso Parri. In Emilia, l'intero CLN di Ferrara viene arrestato dai fascisti e consegnato alle SS tedesche. Solo nel '46 le sette salme dei suoi componenti verranno ritrovate in una fossa comune, in località Caffè del Doro.
il Generale Harold Alexander (a destra) e il Generale Oliver Leese (a sinistra) con Winston Churchill (Italia Agosto 1944)
il proclama del generale Alexander
Testo del proclama che il generale Alexander indirizzò ai partigiani italiani il 13 novembre 1944.
Il proclama venne trasmesso da «Italia combatte», la trasmissione più prestigiosa di Radio Bari.
«Nuove istruzioni impartite dal generale Alexander ai patrioti italiani. La campagna estiva, iniziata l’11 maggio, e condotta senza interruzione fin dopo lo sfondamento della linea gotica, è finita; inizia ora la campagna invernale.
In relazione alla avanzata alleata, nel periodo trascorso, era richiesta una concomitante azione dei patrioti: ora le piogge e il fango non possono non rallentare l’avanzata alleata, e i patrioti devono cessare la loro attività precedente per prepararsi alla nuova fase di lotta e fronteggiare un nuovo nemico, l'inverno. Questo sarà duro, molto duro per i patrioti, a causa della difficoltà di rifornimenti di viveri e di indumenti: le notti in cui si potrà volare saranno poche nel prossimo periodo, e ciò limiterà pure la possibilità dei lanci; gli Alleati però faranno il possibile per effettuare i rifornimenti.
In considerazione di quanto sopra esposto il gen. Alexander ordina le istruzioni ai patrioti come segue:
- cessare le operazioni organizzate su larga scala;
- conservare le munizioni ed i materiali e tenersi pronti a nuovi ordini;
- attendere nuove istruzioni che verranno date o a mezzo radio “Italia combatte” o con mezzi speciali o con manifestini. Sarà cosa saggia non esporsi in azioni troppo arrischiate: la parola d'ordine è: stare in guardia, stare in difesa;
- approfittare però ugualmente delle occasioni favorevoli per attaccare tedeschi e fascisti;
- continuare nella raccolta delle notizie di carattere militare concernenti il nemico, studiarne le intenzioni, gli spostamenti, e comunicare tutto a chi di dovere;
- le predette disposizioni possono venire annullate da ordini di azioni particolari;
- poiché nuovi fattori potrebbero intervenire a mutare il corso della campagna invernale (spontanea ritirata tedesca per influenza di altri fronti), i patrioti siano preparati e pronti per la prossima avanzata;
- il gen. Alexander prega i capi delle formazioni di portare ai propri uomini le sue congratulazioni e l'espressione della sua profonda stima per la collaborazione offerta alle truppe da lui comandate la scorsa campagna estiva».
Parigi, 11 novembre 1940
In Francia, l’11 novembre è il giorno in cui si celebra la vittoria del 1918, i sacrifici e l’eroismo dei combattenti della prima guerra mondiale, il giorno in cui si rende loro omaggio all’Arco di Trionfo, ravvivando la fiamma ed esponendo il tricolore sulla tomba del milite ignoto.
Nella Francia occupata dai nazisti, l’11 novembre 1940 s’inscrive nella coscienza della nazione, malgrado la censura, la propaganda tedesca e quella della repubblica collaborazionista di Vichy. Giovani studenti parigini si radunano all’Arco di Trionfo, sfidando il divieto degli occupanti: è una delle prime forme di resistenza all’invasore nazista.
La manifestazione, che avviene solamente quattro mesi dopo la sconfitta della Francia, orienta il popolo alla resistenza e nello stesso tempo rende la stretta di mano tra Hitler e Pétain, avvenuta il 24 ottobre, il simbolo infamante del tradimento.
11 novembre 1940: come non scegliere questa giornata commemorativa per affermare l’amore della patria, la speranza di una vittoria?
Già, venerdì 8 novembre, gli studenti comunisti hanno manifestato davanti al Collège de France, scandendo il nome di Paul Langevin e gridando «Liberté» e «Vive la France». (Paul Langevin, arrestato il 30 ottobre 1940 dalla Gestapo, fisico, professore al Collège de France, scienziato di fama internazionale, era uno degli intellettuali che avevano sostenuto il Front Populaire e che erano impegnati nella lotta antifascista).
Si apprende che Radio Londra ha rivolto un appello a tutti i francesi, e in particolare agli ex combattenti, perchè depongano fiori sulla tomba del milite ignoto.
Le autorità tedesche d’occupazione, in un manifesto, hanno proibito qualsiasi forma di ricordo che costituirebbe, secondo loro, un insulto al Reich e un attentato all’onore della Wermacht. Ciò ha indignato diversi parigini. Se ne parla nelle brasserie, nelle classi dei licei, nei corridoi della Sorbona, nel Quartiere Latino.
La Commissione, incaricata della censura nei media, ha stabilito che, per la rievocazione dell’11 novembre, i giornali non potranno dedicare più di due pagine.
I giornali pubblicano un comunicato della prefettura di polizia di Parigi, che riecheggia quello del Kommandantur: « A Parigi e nel dipartimento della Senna, le pubbliche amministrazioni e le imprese private lavoreranno normalmente il giorno 11 novembre. Le cerimonie commemorative non avranno luogo. Nessuna pubblica dimostrazione sarà tollerata».
Nel Quartiere Latino, nei grandi licei di Parigi, la collera e l’indignazione si diffondono. Gli studenti che hanno partecipato alla manifestazione dell’8 novembre davanti al Collège de France – quasi tutti comunisti – e i liceali – spesso dell’Action Française – dei licei Janson-de-Sailly, Buffon, Condorcet, Carnot, decidono di redigere e stampare dei volantini ed esporli nei licei e nelle facoltà universitarie, invitando tutti gli studenti a manifestare. «Studenti di Francia, l’11 novembre è per te un giorno di festa nazionale. Malgrado l’ordine delle autorità di occupazione sarà un giorno di raccoglimento. Tu andrai a rendere onore al milite ignoto, alle ore 17,30. Non assisterai a nessuna lezione. L’11 novembre 1918 fu il giorno di una grande vittoria. L’11 novembre 1940 sarà l’inizio di una più grande. Tutti gli studenti sono solidali. Vive la France! Ricopiate queste parole e diffondetele».
Tutto inizia il mattino dell’11 novembre. Vengono depositati dei fiori ai piedi della statua rappresentante la città di Strasburgo, in Place de la Concorde. Poi, con il passar delle ore, la folla risale gli Champs-Elisées, depone migliaia di bouquet, corone di fiori davanti alla statua di Georges Clemenceau.
Un commissario di polizia ripete, con una voce dolce: «Andate via, niente raggruppamenti, vi prego, sono proibiti». Subito dei soldati tedeschi, scesi da una vettura, circondano la statua. «Il comandante tedesco non vuole manifestazioni» ripete il commissario.
Improvvisamente, a partire dalle ore 17, migliaia di studenti riempiono il piazzale dell’Arco di Trionfo. Altri arrivano in corteo, drappo tricolore in testa, dall’Avenue Victor Hugo.
Si sentono esplodere colpi di arma da fuoco. Dei veicoli carichi di soldati tedeschi zigzagano sul piazzale e sui marciapiedi, disperdendo i manifestanti. Ci sono dei feriti. Alcuni manifestanti sono travolti dai mezzi militari. Improvvisamente delle SS, armi in pugno, escono dal cinema Le Biarritz. Nuovamente si sentono dei colpi di arma da fuoco e delle raffiche di mitragliatrice.
Si ode la Marseillaise, poi il Chant du départ. Si sentono grida «Vive la France», «abbasso Pétain», «abbasso Hitler».
I tedeschi piazzano una batteria di mitragliatrici, colpiscono con i calci delle armi da fuoco. Si combatte. Una dozzina sono i morti, un centinaio gli arrestati, che vengono caricati su camion, condotti in Avenue de l’Opera, dove si trova un Kommandantur, poi alla prigione di Cherche-Midi, pestati con pugni e calci, con manganelli e il calcio dei fucili. Vengono fatti passare tra due ali di soldati ubriachi. Alcuni vengono sbattuti contro un muro, puntati da un plotone di esecuzione nel cortile della prigione di Cherche-Midi.
Un generale fa irruzione nel cortile. Si è messo a picchiare i soldati, insultandoli «ubriachi, banda di ubriachi». E vedendo gli studenti, si è indignato, esclamando «ma sono dei bambini!». Questi giovani saranno trattenuti in carcere per tre settimane, prima di essere rilasciati.
Solamente sabato 16 novembre la radio e la stampa hanno dato la notizia che «queste manifestazioni hanno richiesto l’intervento del servizio d’ordine delle autorità di occupazione». Ma la notizia della manifestazione si è propagata per tutta la Francia, suscitando un’ondata di emozioni. Non viene prestata alcuna attenzione al comunicato del Kommandantur. Genera indignazione il testo del documento del vice presidente del Consiglio - Pierre Laval – dal titolo «La verità sugli incidenti dell’11 novembre», in cui si dice «quattro persone sono state leggermente ferite, nessuno è stato ucciso».
Non si conosce l’esatto numero delle vittime, ma vista l’importanza dell’avvenimento, vengono presi provvedimenti da parte del governo di Vichy e dalle autorità di occupazione. Viene decretata la chiusura dell’Università di Parigi e degli istituti universitari della capitale. Gli studenti iscritti ai corsi dovranno, ogni giorno, recarsi a firmare presso il commissariato del loro quartiere.
Il rettore Roussy è revocato e sostituito dallo storico Jérome Carcopino, che riscuote la fiducia del potere di Vichy. La ripresa dei corsi viene fissata per il 20 dicembre, quando le vacanze di fine anno incominciano ... il 21.
Le trasmissioni di France Libre, dai microfoni delle BBC da Londra, ripetono: «Dietro questa folla coraggiosa, gli uomini di Vichy sentono che c’è tutto un paese che si rivolta ... ».
Bibliografia:
Max Gallo, 1940 de l’abîme à l’espérance, XO Éditions, 2010
il Muro di Berlino
9 novembre 1989 - 9 novembre 2024: 35 anni dalla caduta del muro di Berlino
... ma bisogna aspettare il 9 novembre 1989, vedere la felicità impazzita delle due Berlino che in una notte ritornano per sempre una sola città, per capire come quella breccia che squarcia il Muro segni in realtà il passaggio da un'epoca all'altra.
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Il 13 agosto 1961, una domenica di festa, prima dell’alba, sotto l’occhio vigile della polizia, le strade che collegano la parte orientale alla parte occidentale vengono interrotte, disselciate, e si erigono barricate fatte di pali e filo spinato lungo la frontiera con Berlino Ovest; poco tempo dopo queste barricate saranno sostituite da un muro che attraverserà la città da una parte all’altra.
La capitolazione della Germania nel 1945 implica per Berlino dei cambiamenti radicali, di cui non si misura ancora l’ampiezza alla fine della guerra. Importante metropoli internazionale, è al centro dei giochi politici mondiali.
1948
La Guerra Fredda
La città viene divisa in 4 settori d’occupazione, come il resto del Paese: Berlino Est è sotto controllo sovietico mentre i distretti dell’Ovest sono divisi in tre settori amministrati rispettivamente dagli Americani, i Francesi e i Britannici.
I disaccordi politici e amministrativi tra l’URSS e gli Alleati non tardano a farsi sentire. Prendendo a pretesto una riforma monetaria varata dalle potenze occidentali e introdotta nei territori dell’Ovest, il 24 giugno 1948, l’URSS decreta il blocco totale di Berlino, interrompendo ogni comunicazione da e verso la città. Gli Alleati organizzano allora un ponte aereo per rifornire la popolazione durante gli 11 mesi in cui le strade, le ferrovie e le vie d’acqua sono totalmente bloccate.
Il 23 maggio 1949 è fondata la Repubblica federale tedesca (RFT) e il 7 ottobre la Repubblica democratica tedesca(RDT). Tutto ciò, ovviamente, avrà delle conseguenze per Berlino. La Legge fondamentale (Grundgesetz) fa dell’agglomerato urbano berlinese un Land della RFA, mentre la Costituzione della RDT rivendica la città come capitale. Tutte e due si riferiscono a Berlino nel suo complesso.
In pratica, i settori occidentali sono controllati da un’amministrazione tripartita, mentre la parte orientale è sotto il controllo sovietico.
La costruzione del Muro
Il 17 giugno 1953, a Berlino Est, uno sciopero contro le cadenze di lavoro eccessive viene repressa dai carri armati sovietici. Negli anni ’50 sono sempre più numerosi i Tedeschi orientali che fuggono verso la Germania occidentale.
Nel novembre 1958, Kruscev lancia un ultimatum: le potenze occidentali dispongono di sei mesi per ritirare le loro truppe e accettare la trasformazione di Berlino Ovest in una unità politica indipendente; l’Ovest lascia scadere l’ultimatum senza conseguenze.
Nel 1961, Mosca minaccia nuovamente di regolare il «problema di Berlino Ovest» entro un anno. Il presidente americano Kennedy ribatte con le «Three Essentials»: difesa della presenza occidentale, tutela del diritto di accesso, autodeterminazione degli abitanti di Berlino Ovest e garanzia della libera scelta del loro modo di esistenza; in quanto agli abitanti di Berlino Est, non vengono menzionati.
Il 13 agosto 1961, una domenica di festa, prima dell’alba, sotto l’occhio vigile della polizia, le strade che collegano la parte orientale alla parte occidentale vengono interrotte, disselciate, e si erigono barricate fatte di pali e filo spinato lungo la frontiera con Berlino Ovest; poco tempo dopo queste barricate saranno sostituite da un muro che attraverserà la città da una parte all’altra.
Nel 1963, il Presidente Kennedy, durante una visita molto attesa a Berlino, conclude il suo discorso davanti al Municipio di Schöneberg con la celebre frase: «Ich bin ein Berliner».
Nel dicembre 1963, dopo 28 mesi di separazione totale, viene concluso un accordo con le autorità dell’Est per permettere agli abitanti di Berlino Ovest di recarsi all’Est per un periodo massimo di 18 giorni.
La frontiera tra i due settori diventa allora l’unico punto di passaggio tra l’Est e l’Ovest. La costruzione di questo Muro, evento che ha segnato la memoria di tutti i Berlinesi, simboleggia anche la consolidazione delle sfere del potere in Europa.
Lo sgelo degli anni ‘70
Fino all’entrata in vigore dell’accordo quadripartito del 1971, dell’accordo sul transito e del Trattato di base nel 1972, e persino dopo, la questione dello statuto di Berlino rimane un problema. Con il Trattato di base, la Repubblica federale tedesca riconosce infine la Repubblica Democratica Tedesca come uno Stato della Germania. In cambio ottiene la garanzia dello statu quo di Berlino Ovest, ma deve accettare che questa parte della città non faccia parte integrante del suo territorio. Si afferma anche che il collegamento con i settori occidentali e la Repubblica federale va mantenuto e persino rafforzato, di qui l’insediamento sul posto di autorità federali. In realtà non cambia niente, ma esiste finalmente una base giuridica di referenza chiaramente definita. Il Cancelliere Willy Brandt (RFT) e il presidente del Consiglio di Stato Erich Honecker (RDT) conducono una politica di avvicinamento (Ostpolitik): la RDT semplifica le autorizzazioni di viaggio fuori dalle sue frontiere e consente ai Tedeschi dell’Ovest di soggiornare brevemente nelle regioni frontaliere.
Lo sviluppo parallelo
A Ovest come a Est, la pianificazione urbana è al centro delle discussioni politiche. A causa della divisione è necessario ricreare al più presto le istituzioni e gli organismi che mancano nelle due parti della città. I dintorni della Chiesa del Ricordo diventano il centro città di Berlino Ovest, e Alexanderplatz il punto forte della rinnovazione del centro città a Est. Le due parti vengono trasformate, a furia di sussidi, come vetrina dei loro sistemi politici rispettivi. A dispetto delle circostanze, da una parte e dall’altra del Muro, una certa «normalità» s’installa nella vita della maggior parte dei Berlinesi.
La caduta del Muro
Nel 1987, Berlino celebra il suo 750° anniversario. Il presidente americano Ronald Reagan pronuncia queste parole durante un discorso tenuto davanti alla Porta di Brandeburgo: «Signor Gorbacev, apra questa porta, signor Gorbacev demolisca questo muro! » All’Est, la festa si trasforma in tafferuglio quando la polizia caccia un gruppo di giovani che ascolta, vicino al Muro, un concerto di rock organizzato all’Ovest.
Dopo le elezioni comunali del maggio 1989, un movimento di resistenza inabituale e molto violento solleva Berlino Est e la RDT; i difensori dei diritti civili si rivoltano contro le accuse di manipolazione. Le prime manifestazioni hanno luogo contro il sistema politico del SED (Partito Socialista Unificato della RDT). Facilitati dall’apertura della frontiera tra l’Ungheria e l’Austria, i Tedeschi della Germania orientale partono in massa verso l’Ovest. Le ambasciate della RFT situate nei «paesi fratelli» socialisti sono occupate dai rifugiati, che vogliono ottenere i visti di uscita dal territorio.
11 novembre 1989
Il 7 ottobre 1989, l’esecutivo guidato da Erich Honecker festeggia i quarant’anni della repubblica Federale Tedesca a Berlino Est; tuttavia, appena 12 giorni dopo, il presidente del Consiglio di Stato deve abbandonare il SED, dopo esser stato a capo del partito per 18 anni. Il 4 novembre, più di mezzo milione di uomini e di donne si riuniscono in Alexanderplatz per reclamare riforme democratiche e la fine del dominio del partito unico.
Durante una conferenza stampa, il 9 novembre, Günther Schabowski, membro dell’ufficio politico del SED, annuncia un cambiamento nella rigida amministrazione dell’Est: sono autorizzati i viaggi all’estero «senza condizioni preliminari, autorizzazione particolare, né legame di parentela». Interrogato sulla data di entrata in vigore di questa nuova normativa, risponde: «Subito. Immediatamente.»
La notizia si sparge in men che non si dica. Decine di migliaia di Berlinesi dell’Est affluiscono ai posti di frontiera. Le guardie di confine sono sorprese e non avendo ricevuto istruzioni, li lasciano passare. Le barriere vengono aperte dapprima al punto di controllo della Bornholmer Straße e numerosi Berlinesi dell’Est fanno così una breve incursione all’Ovest.
Un immenso movimento d’euforia invade la città che rasenta il caos generale. I Berlinesi, armati di martelli e scalpelli, incominciano a smantellare il Muro. Altri checkpoint sono aperti le settimane seguenti. L’apertura della porta di Brandeburgo, il 22 dicembre 1989, ha un valore particolarmente simbolico.
Il famoso violoncellista Rostropovitch, dovutosi esiliare all’Ovest, viene a suonare ai piedi del Muro per incoraggiare i demolitori (designati con il termine di Mauerspechte, i «picchi verdi del Muro»).
Una vita bruciata dalla Stasi
Un incontro commovente con Heinz Kamisnski, 60 anni, tedesco dell’Est. Quando sua madre era fuggita all’Ovest, fu rapito dalla Stasi (Stasi è l'abbreviazione di Ministerium für Staatssicherheit, "Ministero per la Sicurezza di Stato") all’età di 7 anni. Per i suoi tentativi di fuga ha subito delle persecuzioni di cui ancora soffre.
Tutti abbiamo sentito parlare della Stasi, soprattutto dopo il bellissimo film “La vita degli altri”.
La Stasi è il simbolo di una macchina terribile per distruggere gli uomini.
Abbiamo incontrato una vittima di questa repressione poliziesca che vigeva nella Germania dell’Est, ancora in terapia.
L’incontro avviene nel quartiere Wedding, al centro Gegenwild, un centro psicosociale di Berlino ovest. L’ambiente è caloroso, i mobili in legno, un locale per i colloqui individuali un altro per riunioni di gruppo. Bettina, una delle psicologhe, ci attende con Heinz Kaminski, un uomo robusto di 60 anni, che ha portato con lui un grosso dossier.
Bettina ci spiega che attualmente ha in cura una trentina di persone. Sono vissute tutte nella ex Repubblica Democratica di Germania.
Il centro è stato creato 11 anni fa da un vecchio militante dei diritti civili della Germania dell’Est, Yurger Fox. Più di mille persone hanno avuto contatti con l’equipe del centro, la metà hanno chiamato, gli altri hanno preferito passare direttamente. Bettina racconta che molti hanno ancora paura di raccontare per telefono le loro vicissitudini, per il timore di essere ascoltati.
Heinz Kamisnski è nato nel 1950 a Berlino est. Sua madre era fidanzata con un ufficiale dell’esercito della Germania est. Un giorno decise di andare all’ovest, lei e suo figlio, che allora aveva tre anni. Siamo nel 1953, il muro non esisteva ancora. Heinz cresce nella Germania ovest finché un giorno sua madre perde il diritto di affidamento. La Stasi viene a cercare Kamisnski e lo porta in una casa a Berlino est, controllata dal partito, la SED. Durante la sua adolescenza, la sua ossessione sarà quella di rivedere sua madre. Heinz Kamisnski tenterà, a più riprese, di scappare ma ogni volta viene ripreso e riportato a casa dove viene cresciuto con metodi duri. Un giorno tenta di passare la frontiera con la Cecoslovacchia. Ha 19 anni. Viene arrestato e posto in una cella di isolamento in una prigione di Berlino est. Per 12 mesi vivrà in una cella di 2 metri per 3. In prigione resiste a tutti gli interrogatori della Stasi che vuole sapere se ha dei contatti con l’Ovest. Lo minacciano dicendogli che scomparirà se non parla, che nessuno saprà che è esistito. La Stasi utilizza questi metodi di lavaggio del cervello per farlo cedere. Il giovane Kamisnski resiste ma si ammala perdendo tutti i capelli. La Stasi redige un rapporto sul suo stato di salute che contribuirà a considerarlo come un prigioniero politico della Germania Ovest, cosa che allora accadeva spesso.
Tornato libero Heinz Kamisnski decide di andare a vivere all’estero. Va negli Stati Uniti e in America del sud dove fa dei piccoli lavori. Poi ritorna in Germania, si sposa e trova un lavoro come capocantiere. Ma un giorno “perde le staffe”, litiga sempre più spesso con i suoi colleghi, diventa incontrollabile. Sua moglie lo lascia, perde il lavoro. Gli consigliano di consultare uno psicologo che lo consiglia di rivolgersi ad un centro di terapia sociale più adatto al suo caso.
Heinz Kamisnski viene una volta alla settimana. Quest’estate ha vinto una causa contro lo Stato tedesco ed ha avuto un’indennità di 20.000 euro come vittima, quasi una pensione con la quale possa vivere. Una vittoria per questo uomo che soffre di solitudine, una vittoria dal gusto terribilmente amaro. Heinz Kamisnski non riesce a voltare pagina dopo un passato che lo perseguita da 30 anni. Lo si vede: consulta freneticamente le pagine del suo enorme dossier, che ha recuperato nel 1996, dagli archivi della Stasi, in cui è depositata la storia di tutta la sua vita da quando aveva 7 anni. “Provo ancora odio” dice “contro quegli uomini che mi hanno fatto ciò”.
(Valérie Cova di France Info)
4 Novembre
Giorno dell'Unità d'Italia e Festa delle Forze Armate
Il 4 novembre del 1918, il giorno della Vittoria dell’Italia sull'Austria nella Prima guerra mondiale, simbolicamente si completò il processo dell'unificazione italiana. Un processo lungo e difficile, che aveva avuto i suoi albori con l'età napoleonica e si era sviluppato attraverso cospirazioni, movimenti politici, moti rivoluzionari e guerre. Dagli otto stati pre-unitari nasceva una nazione indipendente. Dai moti del 1820-21 a quelli del 1831, dalle insurrezioni del 1848 alla campagna dello stesso anno ed a quella dell'anno successivo, poi la II Guerra d'Indipendenza, i plebisciti, la spedizione dei Mille, l'Esercito Meridionale, l'intervento nelle Marche e nell'Umbria fino alla proclamazione del Regno d'Italia nel 1861. E poi i successivi tasselli per completare l'unità, con la guerra del 1866 e la presa di Roma. La Prima guerra mondiale diventa quindi la tappa conclusiva dell’unità dell’Italia. E per questo il 4 novembre è stato scelto come giorno in cui si celebrano le Forze armate e appunto l’Unità della nazione. I numeri della Prima guerra mondiale furono questi: oltre 5 milioni di mobilitati, di cui oltre 4 milioni assegnati all'esercito, 680.000 caduti, 270.000 mutilati, un milione di feriti, 600.000 prigionieri, 64.000 dei quali morti per stenti in mano nemica. Nato come "festa della Vittoria", con il tempo il 4 Novembre è diventato "Giorno dell'Unità Nazionale e Giornata delle Forze Armate" ».
Anniversario di Vittorio Veneto
“Vittorio Veneto” è la località nei cui pressi si svolse l'ultimo scontro armato tra Italia e impero austro-ungarico durante la prima guerra mondiale, con la vittoria dell'esercito italiano e segnò la fine della guerra sul nostro fronte.
Nel 1914 l'Europa appariva ormai come una polveriera sul punto di esplodere, ma l'opinione pubblica europea sembrava del tutto inconsapevole del pericolo imminente.
Sarebbe bastata una piccola scintilla - il 28 giugno del 1914, l'assassinio a Sarajevo in Serbia dell'erede al trono degli Asburgo, l'arciduca Francesco Ferdinando, e di sua moglie - per innescare il grande incendio della prima guerra mondiale.
L'Europa nel 1914 risultava divisa in due schieramenti contrapposti che facevano capo ad altrettante alleanze militari: la Triplice Intesa e la Triplice Alleanza. La prima vedeva l'adesione di Francia, Inghilterra e Russia; la seconda quella di Germania, Austria e Italia. Le aree di maggior tensione nello scenario europeo erano: l'Alsazia-Lorena tra Francia e Germania, il Trentino e la Venezia-Giulia tra Italia e Austria. Ma la vera zona calda erano i Balcani, verso i quali si concentravano le mire espansionistiche delle grandi nazioni.
Le dichiarazioni di guerra: Austria contro Serbia (28 luglio 1914), Germania contro Russia (1° agosto 1914), Germania contro Francia (3 agosto 1914), Gran Bretagna contro Germania (4 agosto 1914), Austria contro Russia (6 agosto 1914), Francia contro Austria (11 agosto 1914), Gran Bretagna contro Austria (12 agosto 1914).
Dopo alcuni mesi dall'inizio della guerra il conflitto si estende a buona parte dell'Europa, coinvolgendo anche paesi extra-europei come il Giappone. A scendere in guerra a fianco degli Imperi centrali furono Impero ottomano e Bulgaria, mentre con l'Intesa si schierarono Grecia, Romania e, nel 1915, l'Italia.
Quei fatidici quindici giorni dell'estate del 1914, che segnarono l'avvio e il dilagare delle ostilità, sarebbero rimasti impressi nella memoria degli europei.
Il 1914 rimane una data che marca profondamente la storia del mondo ed ecco perché il primo conflitto mondiale viene correntemente definito la Grande Guerra: iniziava in quel momento un processo destinato a cambiare il destino non solo delle popolazioni del vecchio continente, ma anche dei popoli colonizzati nel resto del pianeta.
la "Grande" Guerra
Nel novembre 1918 fa finiva la prima guerra mondiale. Nel mondo niente era più come prima della guerra. All’est la rivoluzione bolscevica aveva trionfato, la Germania era in ginocchio, l’Austria-Ungheria era scomparsa, nasceva una nuova Europa con nuovi paesi: gli Stati baltici, la Polonia, la Cecoslovacchia; a sud l’impero ottomano era disintegrato, ad ovest la Francia aveva ripreso l’Alsazia e la Lorena, passavano all’Italia il Trentino-Alto Adige e Trieste.
Più di 9 milioni di uomini avevano perso la vita sui campi di battaglia.
La guerra in Europa, iniziata nell’estate 1914, è stata la prima "guerra totale" che aveva opposto diverse nazioni, coinvolgendo le forze economiche.
Una guerra totale è una guerra dove la distinzione tra militari e civili tende a ridursi e dove i civili ci vanno di mezzo come i soldati. Certo le atrocità commesse dalle truppe tedesche in Belgio e nel nord della Francia nell’estate del 1914 o ancora i bombardamenti di Reims sono diverse da quelle di Hiroshima e della distruzione di Desdra, ma la differenza tra le due guerre mondiali è una differenza di scala, dovuto ai limiti della tecnologia. Se i tedeschi avessero disposto di più “Grande Bertha”, i Parigini avrebbero sofferto di più. D’altro canto il genocidio degli Armeni preannuncia in un certo senso quello degli Ebrei.
Una novità della prima guerra mondiale é la nozione del "fronte". Nel XIX secolo le guerre erano fatte da armate in movimento. La guerra, 1914-1918, all’inizio era come quelle dell’800, con delle armate mobili che si cercano, ma nel giro di qualche settimana, il fronte si stabilizza su centinaia di chilometri.
Si ha dapprima la trincea, che è la conseguenza di questa guerra di "fronte". Poi entra in gioco l’artiglieria: la novità sta nell'uso massiccio dell'artiglieria.
Nessuna guerra nella storia aveva avuto un tale impiego esagerato di artiglieria: nella battaglia di Verdun (su un fronte di 17 Km di lunghezza e 3 di laghezza) è caduto un obice di grosso calibro (105 mmm o più) su ciascun metro quadrato. Per trasportare un così ingente quantitativo di munizioni erano stati necessari 872 treni e 26.000 vagoni. L’artiglieria distrugge tutto e stravolge completamente il paesaggio.
Alcune innovazioni fanno di questa guerra la prima guerra industriale: le mitragliatrici, i gas, i lanciafiamme, ma anche i carri armati, i sottomarini e gli aeroplani, con i quali si entra veramente nel XX secolo.
La morte in massa non si era mai vista prima: i morti raggiungeranno la cifra di 9.400.000, di cui 1.397.000 in Francia (pari a una media di 829 morti al giorno nei 1560 giorni di guerra), a cui si devono aggiungere altrettanti feriti e prigionieri, la maggior parte catturati nel 1914 e a Verdun). In Italia i morti furono 578.000 (mediamente 460 morti al giorno in 1258 giorni di guerra).
Con la prima guerra mondiale si entra nell’era della violenza industriale, di una violenza cieca. La guerra del 1914-1918 è una guerra dove è raro che si uccida guardandosi negli occhi. La “pulizia delle trincee” sicuramente é esistita, ma resta marginale in quanto l’arrivo dei soldati in una trincea nemica è preceduto da una tale preparazione dell’artiglieria che gli uomini, di fatto, sono già morti o non sono in grado di opporre resistenza.
Nel 1918 il mondo non assomiglia più a quello del 1914: la principale conseguenza della Grande Guerra è lo spostamento del centro di gravità dell’economia mondiale dall’Europa verso gli Stati Uniti d’America. Nel 1914 l’Europa era il banchiere del mondo; nel 1918 non più. Per finanziare la guerra i paesi europei si erano indebitati: ormai Wall Street supera la City di Londra o la borsa di Parigi.
Gli Stati Uniti d’America erano entrati in guerra contro la Germania nell’aprile del 1917, al fianco dell’Intesa: per questo intervento fu ristabilita la coscrizione obbligatoria che era stata abolita dopo la guerra di secessione (1861-1865) . I soldati americani arrivarono in massa sul continente europeo: 300.000 nel marzo 1918, un milione nel mese di luglio, il doppio alla vigilia dell’armistizio. 114.000 caddero sui campi di battaglia.
Oltre all’apporto dei militari statunitensi alla vittoria dell’Intesa, non va dimenticato l’aiuto americano nel campo economico: durante la guerra, gli alleati ricevettero materie prime, alimenti, macchine utensili, materiale ferroviario, benzina.
(Liberamente tratto da un’intervista al prof. Antoine Prost, insegnante alla Sorbona di Parigi, esperto in Storia dell’Educazione e di Storia sociale)
La Grande Guerra: una guerra totale
1918 – 2024. A 106 anni dalla fine della “Grande Guerra” , riportiamo alcune considerazioni di Marcello Flores sulla prima Guerra mondiale, tratte dal suo libro “Il genocidio degli Armeni”.
La “Grande Guerra” è la prima guerra “totale”, che anticipa, prefigura e apre la strada alle violenze più drammatiche dell'intero XX secolo.
Quando la guerra del 1914 non riuscì a produrre rapidamente un risultato, quando diventò una forma di guerra d'assedio tra potenze industriali i cui domini si estendevano da un capo all'altro del pianeta, questa si trasformò in un altro tipo di guerra, più grande, più letale e più corrosiva di qualsiasi conflitto precedente. È a questa nuova tipologia di guerra che si applica propriamente l’etichetta di «guerra totale».
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C’è larga convergenza tra gli storici, ormai, sul carattere di cesura epocale rappresentata dalla prima guerra mondiale.
In poco più quattro anni muoiono nove milioni di persone, quasi tutte fra i venti e i trent'anni, tanto che si darà il nome di «generazione perduta» ai giovani nati nell'ultimo decennio dell'Ottocento e che erano entrati nell'adolescenza mentre il mondo festeggiava con fiducia l'ingresso nel XX secolo.
È un risultato che nessuno, neppure i più pessimisti, aveva minimamente ipotizzato, mentre era largamente diffusa, in entrambi gli schieramenti, la convinzione che il conflitto sarebbe stato breve.
Le intere economie dei paesi in guerra si piegano alle necessità militari, la mobilitazione della società perché partecipi allo sforzo bellico è continua e si cerca di ottenerla con la forza della propaganda e dell'infiammazione patriottica o, quando entrambe si dimostrano inefficaci, con irreggimentazione e la disciplina coatta, la limitazione delle libertà e la minaccia della repressione.
Se questo avviene nelle democrazie più evolute - dove ogni principio, interesse, istituzione sono subordinati al «valore» dell’efficacia bellica -la situazione negli Stati autocratici o semidittatoriali è ancora più drammatica, in modo particolare e tragico per le minoranze nazionali, considerate in blocco inaffidabili e pericolose.
Il ruolo e il peso dei militari nelle decisioni politiche si accompagna alla creazione di un clima plumbeo nell'intera vita sociale e culturale. L'amor di patria si presenta spesso con caratteristiche del sacrificio convinto e accettato delle proprie e altrui libertà.
Siamo di fronte, come è stato ripetuto più volte e come è orma quasi diventato un luogo comune che non suscita particolare emozione, alla prima guerra “totale”, che anticipa, prefigura e apre la strada alle violenze più drammatiche dell'intero XX secolo.
È l’intreccio della produzione industriale con la società di massa a generare un nuovo tipo di guerra, anche se la guerra totale non è mai letteralmente totale. È «totalizzante» nel senso che, quanto più si prolunga, tanto più cresce l'ammontare delle risorse umane e materiali inesorabilmente inghiottite nel suo vortice.
Quando la guerra del 1914 non riuscì a produrre rapidamente un risultato, quando diventò una forma di guerra d'assedio tra potenze industriali i cui domini si estendevano da un capo all'altro del pianeta, questa si trasformò in un altro tipo di guerra, più grande, più letale e più corrosiva di qualsiasi conflitto precedente. È a questa nuova tipologia di guerra che si applica propriamente l’etichetta di «guerra totale».
Il primo anno di guerra si dimostra il più costoso, in termini di vite umane e di battaglie sanguinose, perché entrambi gli schieramenti sono ancora convinti della possibilità di vincere rapidamente il conflitto.
Le regole di guerra, che pure in passato non avevano certo impedito spargimento di sangue e inutili carneficine, sembrano cambiate per sempre.
Il fatto che circa la metà degli uomini tra i diciotto e i quarantanove anni fosse coinvolta nella guerra e che la mobilitazione raggiungesse l'80 per cento di quella fascia l'età - il cuore pulsante e produttivo di ogni nazione - spiega adeguatamente il sentimento di novità - speranza prima e paura dopo - che accompagna il conflitto.
La percentuale dei morti, al termine, fu ancora più impressionante. Più di un serbo su tre che aveva indossato l'uniforme venne ucciso, e per bulgari, rumeni e turchi la percentuale fu di uno su quattro, per tedeschi e francesi di uno su sei e per gli italiani e per gli inglesi di uno su otto.
L'ingresso in questo che si sarebbe dimostrato un massacro collettivo fu accompagnato all'inizio da una mobilitazione in gran parte spontanea ed entusiasta. La volontà bellica degli alti comandi e di non pochi politici fu rafforzata dalla spinta dal basso che ebbe la partecipazione alla guerra, l'entusiasmo patriottico per entrarci, il disprezzo e l'oltraggio per chiunque mostrasse qualche ragionevole dubbio o auspicasse la pace o la neutralità.
Il processo di demonizzazione del nemico, che costituisce uno degli aspetti salienti della guerra mondiale, rende particolarmente virulento il concreto scatenamento di quell' educazione all'odio che i diversi nazionalismi stavano diffondendo da anni in ogni paese.
È la guerra che crea le condizioni perché un sentimento come l’odio nazionale, etnico e razziale - più o meno presente ad ogni latitudine - possa trasformarsi in massacri e crimini di guerra e sia capace di innalzare oltre misura il livello di tolleranza alla violenza delle popolazioni coinvolte.
Nel contesto del conflitto ogni gruppo nazionale o etnico si sente - ed è realmente, visto che la guerra coinvolge e sconvolge tutti - vittima, ed è incapace di guardare alla realtà altrimenti che con il filtro del nazionalismo, del proprio interesse collettivo o della propria paura.
Bibliografia:
Marcello Flores – Il genocidio degli Armeni – Società Editrice il Mulino
La Grande Guerra, “immenso impero regno della morte”
Le ricorrenze, quando non sono occasioni vuote o retoriche, possono servire da stimolo al ricordo e alla riflessione.
Costretti a morire per quella che papa Benedetto XV nel 1917 aveva definito "Un'inutile strage"
Ad centodieci anni dall'inizio della Prima guerra mondiale, l’orrore racchiuso nei numeri a cinque zeri, riguardanti le vittime i cui nomi restano, in ogni piccola frazione, incisi sui gelidi monumenti ai caduti, sembra dissolversi in una dimensione della memoria dai contorni sfuocati; come se quella tragedia in bianco e nero appartenesse alla storia di un altro pianeta, nonostante che abbia investito violentemente il passato di ogni famiglia e comunità, segnando l’esistenza di milioni di individui risucchiati dentro quello spazio estremo che nel 1917 un caporale dei bersaglieri di Asti definì «immenso impero, regno della morte», venendo condannato a due mesi di carcere per lettera denigratoria.
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smitizzare il mito della Prima Guerra Mondiale
«Ogni due o tre generazioni, quando la memoria si indebolisce e gli ultimi testimoni dei massacri precedenti scompaiono, la ragione si offusca e degli uomini ricominciano a diffondere il male». (Olivier Guez)
Il 4 novembre 1918, in Italia finiva la prima guerra mondiale.
A “Vittorio Veneto” si svolse l'ultimo scontro armato sul nostro fronte, tra Italia e impero austro-ungarico, con la vittoria dell'esercito italiano.
La prima guerra mondiale è conosciuta anche con il termine di “Grande Guerra” perché così apparve alle popolazioni che vi si trovarono coinvolte. Fu una guerra “Grande” non solo per estensione dei fronti e per numero degli stati coinvolti: mai prima c'erano stati tanti soldati in trincea, tante armi in dotazioni agli eserciti, tante industrie impegnate a sostenere lo sforzo bellico.
Quella carneficina insanguinò l’Europa, un’Europa che, dalla sua fondazione negli anni Cinquanta, ci ha consentito di vivere anni di pace; un’unità europea che ora è minacciata dal rinascere dei nazionalismi, nazionalismi che furono una delle cause della Grande Guerra.
Benché avesse fatto parte della Triplice Alleanza, con la Germania e l’Austria-Ungheria fino allo scoppio del conflitto e fosse entrata in guerra contro i suoi ex alleati, l’Italia fu tra i vincitori della Prima Guerra mondiale.
Per avere un’idea della dimensione di quel conflitto che stravolse il mondo dal 1914 al 1918, caratterizzato da una violenza senza precedenti, si devono citare dei numeri: i numeri non hanno un’anima, ma quelli della guerra contengono tutto il dolore degli uomini.
Le cifre sono implacabili: complessivamente 9,7 milioni di uomini trovarono la morte, circa due milioni di tedeschi, un milione e ottocento mila russi, un milione e quattrocentomila francesi, un milione e centomila austroungarici, 885.000 britannici, 650.000 italiani e 116.000 americani e tanti di altri stati belligeranti.
20 milioni furono i feriti (12 milioni per i paesi dell’Intesa e 8 milioni per quelli della Triplice Alleanza).
L’Italia ebbe un milione di feriti, tra cui 500.000 mutilati, 74.620 storpi, 21.200 rimasti senza un occhio, 1.940 senza occhi, 120 senza mani, 3260 muti, 6.760 sordi, invalidi la cui vita fu definitivamente spezzata.
I civili che persero la vita raggiunsero la considerevole cifra di 8,9 milioni.
Dal 1915, a causa di ogni sorta di penuria, la vita diventò difficile in Europa.
In tutte le nazioni coinvolte nel conflitto, le donne, incoraggiate dalla propaganda ufficiale, sostituirono gli uomini, partiti per il fronte, nelle loro occupazioni professionali d’anteguerra.
La durata del lavoro aumentò, le condizioni igieniche si degradarono, i bisogni per il riscaldamento diventarono insoddisfacenti e le epidemie aumentarono di intensità.
La tubercolosi, malattia legata alla degradazione delle condizioni di vita, ancora virulenta all’inizio del XX secolo, guadagnò terreno in tutta Europa.
Le malattie veneree aumentarono anch’esse di intensità a causa delle numerose truppe sui territori dei paesi belligeranti, creando preoccupazioni sull’avvenire delle future generazioni.
Nel 1918 scoppiò una gigantesca epidemia di influenza spagnola che agendo su organismi indeboliti, fece circa 20 milioni di morti nel mondo.
350.000 furono gli italiani morti di spagnola, 500.000 se si considerano le complicazioni legate all’influenza.
Alla fine delle ostilità si contarono circa 7,5 milioni di soldati prigionieri e dispersi.
La Prima guerra mondiale generò un fenomeno inedito nella storia dei conflitti: 4,2 milioni di vedove. Il numero degli orfani si aggirò sugli 8 milioni.
La fine della guerra vide una pace precaria e un’Europa destabilizzata: il carattere radicale dei trattati conclusi con gli imperi centrali, in piena disintegrazione, generò dei sentimenti di rancore e di rivincita che faranno da substrato ai movimenti estremistici di sinistra e di destra.
La carta dell’Europa venne profondamente ridisegnata per la creazione di nuovi paesi, come la Polonia, la Cecoslovacchia, il regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, nocciolo della futura Jugoslavia.
I ritagli territoriali produssero grandissimi spostamenti di popolazioni e un numero considerevole di rifugiati.
Le perdite in vite umane durante la guerra produssero anche un deficit di natalità.
Le economie dei paesi belligeranti uscirono devastate dalla guerra. L’inflazione subì un’impennata catastrofica.
L’Italia, firmataria dei trattati con gli imperi centrali vinti, rimase delusa dei compensi territoriali ottenuti. Gabriele D'Annunzio coniò il termine “vittoria mutilata”, definizione che diventò un vero e proprio mito politico. All’Italia resterà un sentimento di amarezza e di frustrazione che in parte sarà la causa dell’ascesa del fascismo di Mussolini.
Appena conclusa la guerra, prese il via una sorta di “frenesia commemorativa” fatta di monumenti ai caduti, grandi sacrari militari, fino alla trasformazione del Vittoriano in monumento al Milite Ignoto. In un primo momento la necessità dell’elaborazione del lutto, anche collettiva, da parte dei famigliari e degli amici delle vittime ha avuto un ruolo importante, e lapidi e monumenti ai caduti hanno svolto anche questa funzione. Ma subito dopo, e in particolare dopo la presa del potere da parte del fascismo, è stata attuata una vera e propria “politica della memoria” per costruire una sorta di religione della patria fondata sul “sacrificio eroico” dei soldati.
A partire dal 1928, poi, il regime iniziò la progettazione e la costruzione di grandi monumenti e sacrari nazionali. Il sacrario militare di Redipuglia è l’emblema di questo uso politico della morte e della memoria: 22 giganteschi gradoni di marmo bianco, che contengono le spoglie di oltre 100mila soldati, su ciascuno dei quali è scolpita ossessivamente la parola «Presente», come nel rito dell’appello durante i funerali o le commemorazioni dei cosiddetti “martiri fascisti”.
Demistificare la narrazione apologetica e celebrativa della Prima guerra mondiale significa porre le basi per creare una più solida coscienza critica non solo del perché fu orrore quella guerra, ma di come lo sono state anche altre guerre.
Bibliografia:
AA. VV.- La guerre des affiches - Editions Prisma Paris 2018
Aldo Cazzullo - La guerra dei nostri nonni. 1915-1918: storie di uomini, donne, famiglie – Mondadori 2017
Valerio Gigante, Luca Kocci, Sergio Tanzarella - La grande menzogna. Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sulla I guerra mondiale - Ed. Dissensi, Viareggio 2015
La crisi del 1929
Il 24 ottobre 1929, i titoli della Borsa di New York crollano, provocando un crac che è il più doloroso della storia.
Il “martedì nero”
Dovuta ad una speculazione sfrenata, l’aumento dei titoli accelera dal 1927. Culmina il 19 settembre 1929 e s’innesca una svolta il 3 ottobre. Le transazioni quotidiane di Borsa sono in media circa 4 milioni di titoli, mentre il 24 ottobre sono venduti 13 milioni di titoli. L’intervento immediato delle grandi banche limita tuttavia il ribasso dei titoli, ma il sogno di un arricchimento illimitato si allontana. Lo choc decisivo avrà luogo il “martedì nero” il 29 ottobre: 16 milioni di titoli sono venduti e i titoli affondano; l’eccessiva fiducia derivante dalla prosperità del dopoguerra è sostituita da un’ondata di panico che fa piombare l’America nel pessimismo.
«Come guadagnare un milione di dollari alla Borsa di New York? Semplice, è sufficiente investirne due!».
Questa battuta circola dopo il crollo del mercato dei titoli il 24 e il 29 ottobre 1929, ma gli Americani non sono in vena di ridere. Ancora i più ottimisti, come il loro Presidente repubblicano Hoover, credono che si tratti di una semplice recessione e che “la prosperità si trovi dietro l’angolo“. Al contrario, il crollo della Borsa provoca una crisi senza precedenti, con una serie di effetti domino: fallimento di molte banche, diminuzione dei consumi, difficoltà alle industrie, disoccupazione, che a sua volta, alimenta la depressione, riducendo in modo catastrofico i redditi di milioni di potenziali investitori. Peggio, l’onda di choc, nata negli Stati Uniti, si propaga dappertutto dove gli investitori americani avevano piazzato i fondi brutalmente ritirati. La Grande Depressione rivela così la complessità del moderno capitalismo internazionale.
Il 29 ottobre 1929, detto il “martedì nero“ il panico si impadronisce della Borsa di New York e 13 milioni di titoli cambiano di mano. Cinque giorni dopo, il crollo è confermato dalla vendita di 6 milioni di titoli. Gli Stati Uniti cadono nella crisi trascinando il mondo con loro.
Il New York Times dedica la sua prima pagina della sua edizione del 30 ottobre 1929 al crollo nazionale: il rialzo speculativo delle quotazioni che avviene tra il 1926 e il 1929 è annullato in cinque giorni. Benché non tocchi più di un milione di Americani (su una popolazione di 123 milioni), il crollo borsistico ha un impatto considerevole sul piano psicologico. La crescita cieca in un avvenire economico radioso è spazzata via.
L’America sotto choc
Molto rapidamente la recessione tocca il sistema bancario; il ritiro massiccio effettuato dai risparmiatori fa fallire 640 banche nel 1929. L’anno seguente 1300 e più di 2200 nel 1931. Questa brutale paralisi del credito blocca tutti gli investimenti e frena i consumi. La caduta delle vendite accresce gli stock e fa crollare i prezzi: diversi industriali sono rovinati. Dal 1929 al 1932, la produzione americana diminuisce del 46 per cento.
La chiusura delle industrie provoca un tasso di disoccupazione fino ad allora sconosciuto. Il 3% degli attivi nel 1929, il 24% nel 1932.
I colletti blu, - gli operai – per primi, poi i colletti bianchi – gli impiegati e i quadri delle classi medie – perdono il lavoro. Non beneficiando di alcun aiuto piombano nella miseria. Non sono i soli.
Le quotazioni agricole si abbassano della metà durante lo stesso periodo; gli agricoltori, incapaci di pagare i loro debiti, emigrano in California.
Lo choc sociale si ripercuote sulla vita politica: la distruzione delle derrate deperibili, quando milioni di persone soffrono la fame, la nascita di bidonville, ribattezzate “hoverville” dove abitano famiglie una volta agiate, incitano gli elettori a respingere i discorsi del presidente repubblicano, il cui indefettibile ottimismo sembrava molto inadatto alla gravità della situazione.
Nel novembre 1932, Hover cede il posto al democratico Franklin Delano Roosevelt. Contrario ad idee preconcette, questi non ha dei programmi ben definiti né soluzioni miracolose per ristabilire la situazione, ma si impegna tuttavia – questa è un’innovazione – a far intervenire lo Stato nella vita economica.
La depressione del mercato americano tocca rapidamente il Giappone e l’America latina; le loro esportazioni crollano e sono costretti a stabilire un controllo sui cambi a partire dal 1930.
Nello stesso anno il marasma arriva nell’Europa centrale. Il ritiro massiccio dei capitali americani provoca il fallimento di numerose banche che avevano spesso investito a lungo termine le somme di denaro a loro disposizione.
Anche se Hover aveva proposto, per la durata di un anno, la moratoria della riparazione dei danni di guerra dovuti dalla Germania, tuttavia la Germania mise ugualmente, nel luglio 1931, il controllo dei cambi, quando ormai l’orizzonte politico è oscurato dall’accresciuto seguito dei partiti estremisti.
Due mesi più tardi, vista la rapida riduzione della giacenza di oro nelle sue casse, il Regno Unito sospende la convertibilità della lira sterlina, che perde quasi il 30% del suo valore. Quaranta paesi seguono questa svalutazione e formano la “zona sterling”; i prodotti britannici diventano così più competitivi, ma la crisi si estende in tutta l’Europa occidentale e ai suoi fornitori africani o asiatici. Solo l’Unione Sovietica sembra sfuggire al disastro: la collettivizzazione nelle campagne è in pieno sviluppo, la pianificazione industriale ed agricola è esaltata dalla propaganda staliniana, che vuole dimostrare, per mezzo delle statistiche, la superiorità del sistema comunista su un capitalismo senza scampo.
La produzione industriale del globo conosce una diminuzione eccezionale: nel 1929, 120 milioni di tonnellate di acciaio escono dagli altoforni, contro i 50 milioni di tre anni dopo. Le industrie dei beni di consumo sono colpite di riflesso. 1,9 milioni i veicoli fabbricati nel 1932 contro i 6,3 milioni nel 1929.
La disoccupazione esplode; il numero dei disoccupati nei paesi industrializzati è valutato sui 30 milioni nel 1932, di cui 12 milioni di Americani (il 24% della popolazione attiva) e più di 6 milioni di Tedeschi il 17% della popolazione attiva).
Ad eccezione della Gran Bretagna, dove dal 1908 è stato introdotto un sussidio di disoccupazione, gli aiuti ufficiali sono pressoché inesistenti; gli altri paesi sopperiscono come possono alla miseria improvvisa. Molti disoccupati sono costretti a mendicare e sopravvivono unicamente grazie alle mense popolari e ai dormitori.
Una superproduzione agricola fa cadere le quotazioni di oltre la metà o più; ciò spinge a distruggere le scorte con grande scandalo per chi soffre la fame: i Brasiliani utilizzano il caffè invenduto come combustibile per le locomotive a vapore.
Una parte della società trae profitto dagli sconvolgimenti economici: così i risparmiatori vedono aumentare il loro potere d’acquisto man mano che i prezzi diminuiscono; i proprietari di terreni o di immobili beneficiano di un aumento reale delle rendite. Il periodo è nello stesso tempo favorevole a chi conserva il proprio lavoro poiché i salari diminuiscono meno rapidamente dei prezzi. Ma queste disuguaglianze attirano la collera contro i governanti: i regimi parlamentari sono minacciati dal sorgere di movimenti estremisti (partito nazista e comunista in Germania), formazioni di tipo fascista in Europa centrale, leghe in Francia.
Per gli economisti liberali il solo modo di favorire la ripresa è di risanare l’economia con dei rimedi classici: riduzione delle spese pubbliche per ristabilire l’equilibrio del bilancio, la difesa della parità monetaria accompagnata da una diminuzione dei prezzi e dei salari per rilanciare le esportazioni (deflazione).
La deflazione è combattuta con vigore da un economista inglese, John Keynes, autore della “Teoria generale del lavoro, dell’interesse e della moneta”. Apparsa nel 1936, quest’opera attribuisce la crisi ad una insufficienza della domanda. I disoccupati sono costretti a consumare meno, questo aggrava le difficoltà dell’industria. Per uscire da questo circolo vizioso, lo Stato ha un ruolo fondamentale da giocare, con il ricorso sistematico al deficit di bilancio, alla diminuzione del tasso d’interesse e, se necessario alla svalutazione.
Conosciute dopo la loro pubblicazione, le idee di Keynes ispirano in parte le politiche economiche delle democrazie: nel 1934 Roosevelt svaluta il dollaro, instaura un deficit di bilancio e mette in moto una politica di grandi lavori pubblici per assorbire la disoccupazione.
La risposta migliore alle difficoltà del momento sembra venire dalle dittature, che basano il rilancio sul riarmo, sull’esclusione dal mondo del lavoro delle donne e sull’autarchia.
Dei successi spettacolari, amplificati dalla propaganda, rasentano dei fallimenti lampanti: l’industria tedesca del 1936 supera quella del 1929, ma l’agricoltura non è autosufficiente. La massa dei disoccupati è quasi interamente riassorbita, tuttavia il Paese è sottomesso al terrore, mentre il riarmo indica la volontà dei dirigenti di conquistare uno “spazio vitale” con la forza.
Le scelte dell’Italia di Mussolini vanno in questa direzione: lo Stato controlla un’ulteriore parte dell’economia, esalta l’autarchia, procede alla bonifica delle terre per uso agricolo, come la celebre “battaglia del grano”. La conquista dell’Etiopia è conclusa nel 1935 e 1936; in quest’occasione, l’avversione inglese e l’indecisione francese creano delle ostilità con le democrazie occidentali e spingono così il Duce nelle braccia di Hitler.
La dittatura militare giapponese impone dal 1931 un protettorato sulla Manciuria, ricca di minerali, prima di attaccare la Cina nel 1937. La ripresa economica del Giappone, favorita dalla caduta dello yen, si orienta verso le industrie strategiche.
L’arretramento generale delle economie suscita delle guerre commerciali e monetarie che non migliorano le relazioni internazionali. Dal 1930 gli Stati Uniti aumentano i loro dazi doganali più del 50%; nel 1932, la Gran Bretagna interrompe un secolo di libero scambio per il protezionismo. In base agli accordi di Ottawa, stabilisce dei rapporti di preferenza con il Commonwealth, cioè i territori dell’impero britannico.
La Francia agisce allo stesso modo con le colonie e contingenta le sue importazioni.
La Germania e l’Italia si proclamano “nazioni proletarie” e cercano di essere autosufficienti. In un tale contesto, il valore degli scambi commerciali si riduce di due terzi e il volume totale diminuisce del 30% tra il 1929 e il 1932. A tutto ciò si aggiunge una divisione delle nazioni in aree monetarie: la “zona sterling” esiste dal 1931; l’influenza del dollaro si estende al Canada e all’America latina; il marco domina tutta l’Europa centrale e fin al 1936, l’Unione latina (o “blocco oro”) raggruppa i paesi che si rifiutano di svalutare (Francia, Italia, Belgio, Svizzera, Polonia e Olanda).
Al di là dei suoi effetti destrutturanti immediati, la crisi del 1929 segna la fine del liberalismo economico, di cui i teorici non hanno saputo prevedere ne guarire i danni: molti di loro hanno voluto credere che la crisi si sarebbe assorbita spontaneamente. L’intervento regolatore dello Stato si attua in modo empirico, ben prima di essere legittimato dall’analisi di Keynes. I contemporanei assistono così all’apparizione dello Stato-previdenza: i poteri pubblici aiutano le industrie in difficoltà, combattono l’aggravarsi del disagio degli agricoltori e soccorrono i disoccupati. In modo paradossale i gravi problemi dell’economia capitalista conducono alla realizzazione di una legislazione sociale molto spinta. La crisi del 1929 ha così contribuito a mettere a punto un nuovo capitalismo che trionferà dopo il 1945, che associa la libera impresa, il ruolo in economia dello Stato e la solidarietà sociale.