Ritorno a Sestri Levante 2 aprile 2023
Domenica 2 aprile una delegazione della nostra Sezione è stata presente a S. Margherita di Fossa Lupara (Sestri Levante) alla manifestazione per commemorare i caduti della vallata di S. Vittoria e frazioni. Tra i partigiani fucilati in quella località, il nostro concittadino Arturo Arosio
L'intervento di Stucchi, Presidente della Sezione ANPI di Lissone:
"Gentili Autorità, cari concittadini,
la presenza della sezione ANPI di Lissone alla commemorazione odierna non è soltanto un doveroso omaggio alla memoria dei partigiani. Non siamo venuti qui soltanto con lo sguardo rivolto al passato e neppure soltanto per l’amicizia sempre più stretta che ci lega a questa città e in particolari ai carissimi compagni dell’ANPI di Sestri Levante.
Siamo qui con la ferma convinzione che non è in gioco solo il significato del passato, ma anche quello del presente e del futuro. I valori dell’antifascismo e della Costituzione sono oggi più che mai attuali e anche per questo prendiamo atto con profondo disappunto dell’assenza dell’Amministrazione Comunale della Città di Lissone. La Costituzione nata dalla Resistenza, infatti, non è e non dovrebbe essere considerata l’espressione di una parte politica, ma la base istituzionale della legittimità e delle attività di tutte le amministrazioni della Repubblica: Comuni, Province, Regioni e Stato.
Oggi questa verità è ancora più urgente. La cronaca ci mette di fronte troppo spesso a nuove intolleranze, a nuovi fascismi, a nuove prevaricazioni. Il recente assalto alla sede della CGIL è solo uno dei tanti episodi che ci richiamano alla difesa intransigente dei valori democratici. Non si possono tollerare gli intolleranti e i valori di uguaglianza e di libertà della Costituzione nata dalla Resistenza devono essere difesi e protetti con tutta l’energia necessaria. Per questo non è ammissibile che, proprio da parte di alcune tra le più alte cariche istituzionali della Repubblica, sia partito in questi giorni un vero e proprio attacco al significato dell’attentato di via Rasella e della strage delle Fosse Ardeatine.
Anche la pace è un valore costituzionale. Conosciamo tutti l’articolo 11 della Costituzione: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Ma da più di un anno la guerra infuria alle nostre porte. Sappiamo bene quali siano le gravi responsabilità della Russia di Putin. Ma questo non ci impedisce di respingere l’idea che la soluzione della crisi passi solo per le vie militari. La prima preoccupazione, anzi, dovrebbe essere quella di evitare un’estensione e una radicalizzazione del conflitto. Occorrono equilibrio e intelligenza. Il diritto del popolo ucraino a resistere deve essere accompagnato da uno sforzo della comunità internazionale ad avanzare mediazioni e compromessi che inducano le parti a deporre le armi. È ancora l’articolo 11 a obbligare l’Italia su questa strada, a favorire le organizzazioni internazionali che assicurino la pace e la giustizia tra le Nazioni, per dirla con le parole dell’artico 11. Anche senza mettere in discussione l’appartenenza alla NATO, non possiamo perciò illuderci che un’organizzazione eminentemente militare sia lo strumento privilegiato per la ricerca della pace.
Infine, è sempre la stella polare della Costituzione nata dalla Resistenza che ci ha mobilitato per la raccolta di firme per la proposta di legge di iniziativa popolare per la modifica degli articoli 116 e 117 della Costituzione che oggi, dopo essere stati imprudentemente modificati nel 2001, vengono usati per rompere l’unità sostanziale della Repubblica in nome della cosiddetta autonomia differenziata. La valorizzazione delle autonomie locali non è in discussione, ma non può significare sottrarre risorse ai territori che ne hanno più bisogno. Proprio l’articolo 2 della Costituzione richiede l’adempimento degli “inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale” che sono uno dei più profondi insegnamenti dei partigiani che oggi siamo qui a celebrare.
Viva l’Italia, viva la Repubblica una e indivisibile, viva la Resistenza!"
Gli scioperi del 1944 in Brianza
“In questa zona dobbiamo concentrare l'attenzione nelle zone elettivamente industriali, come Monza e dintorni, e poi isolatamente alle altre importanti fabbriche presenti sul territorio. L'importante fonte Rapporto sullo sciopero generale del 1 marzo a Milano e provincia, redatta dal partito comunista milanese, ragguaglia che nel primo giorno di agitazione, alla Hensemberger di Monza il lavoro si bloccò alle 10.00, mentre due ore più tardi gli operai avevano addirittura abbandonato lo stabilimento. Già in questa giornata sono arrestati gli operai Giuseppe Vismara di Triuggio e Valentino Rivolta di Macherio, colpevoli di aver tolto la corrente alla fabbrica. A conferma di quanto detto in precedenza, il documento sottolinea la tendenza delle maestranze di questa ed altre fabbriche a seguire l'azione dei complessi di Sesto e Milano.
Alla Singer, presente anch'essa nel capoluogo brianzolo, l'avvenuta interruzione del lavoro è efficacemente contrastata da fascisti e tedeschi che puntano le mitragliatrici contro la fabbrica e minacciano la fucilazione di alcuni ostaggi. Gli operai della Singer sono così costretti a riprendere il lavoro. Intanto a Monza si sono bloccate anche la Philips e la Sertum. Nello stesso giorno sono segnalati scioperi riusciti a Desio alla Bianchi, mentre alla Tessitura Targetti e alla Gavazzi la fermata sembra avere meno successo. In fermento anche l'Isotta Fraschini di Meda. Il giorno 2 marzo, il rapporto informa che a Monza, a causa della brutalità della reazione in alcuni stabilimenti il lavoro è stato ripreso. A Lissone i lavoratori dell'Incisa (1200) e dell'Alecta (500) aderirono allo sciopero in modo massiccio.
Nella Brianza comasca, abbastanza attiva fu la zona del canturino. La filotecnica Salmoiraghi, azienda milanese sfollata a Cantù, si mise in sciopero il 2 marzo. Le fonti di opposta origine concordano sul numero degli scioperanti; infatti il foglio clandestino Il fronte proletario scrive che alla Salmoiraghi si sono astenuti dal lavoro circa 350 dipendenti. Il notiziario della Guardia nazionale repubblicana di Como riferisce che di 600 operai se ne presentarono al lavoro 200 circa, inoltre anche questi ultimi, intorno alle 10.30, abbandonarono lo stabilimento. Sciopero anche alle Imprese Seriche Italiane di Mariano Comense, sempre dal 2 marzo; alle 14.00 circa 700 operai, in massima parte donne, sospesero il lavoro.
È accertato che anche le ferriere Orsenigo e le Taglietti di Figino Serenza si unirono alla protesta, mentre più turbolenta fu la manifestazione della Vergani di Cantù. Le operaie messe in ferie per evitare che scioperassero, si riunirono lo stesso e si recarono in massa davanti al Municipio, chiedendo pane, latte e grassi per i bambini e un miglior regime alimentare per loro.
Il commissario prefettizio non trovò di meglio che chiamare le autorità tedesche.
Le caratteristiche dello sciopero del marzo '44 in Brianza furono quindi innanzitutto di subalternità nelle azioni e nelle decisioni, nei confronti dei grandi centri sestesi e milanesi. Inoltre, riguardo la durata, mentre nella cintura milanese l'astensione del lavoro continuò fino all'8 marzo, abbiamo visto che sia nel monzese che nel comasco non si andò oltre i due giorni.
Ciò è spiegabile e comprensibile, perché nelle fabbriche brianzole gli scioperanti non potevano contare sulla forza delle enormi masse create dai grandi stabilimenti delle città industriali, la repressione poteva avere più buon gioco e gli agitatori potevano essere più facilmente individuati. Tutti questi motivi sono validi anche per spiegare come mai diverse aziende brianzole si erano astenute dallo sciopero.
In definitiva comunque, si può commentare positivamente l'esito dello sciopero in Brianza, una terra in cui le premesse non erano favorevoli, per il tradizionale e radicato moderatismo di quest'area, e per la mancanza di grandi e compatte masse operaie. Anche se proprio per questo l'adesione non fu al livello di Sesto e Milano, la protesta con la sua portata politica indubbiamente servì a creare una coscienza maggiore nei lavoratori brianzoli, circa la situazione di quel momento, contribuendo ad aumentare l'avversione per un regime che perpetuava una guerra disastrosa e delle condizioni di vita conseguentemente molto precarie. La prova di questo effetto sono i malumori non più repressi e le ribellioni messe in atto senza timore nei mesi successivi al grande sciopero.
Già il 31 marzo, gli addetti ai telai meccanici della Tessitura Cattaneo di Cantù, non avendo ottenuto l'aumento di paga in seguito alla fermata del lavoro fatta in precedenza, si recarono in Direzione per chiedere un anticipo di 5.000 lire, che gli fu loro concesso. Il fatto, presto risaputo in fabbrica, mise in fermento anche altre categorie di dipendenti della Cattaneo, che chiesero anch' essi un analogo trattamento.
Si sa, comunque, che a causa della pressione ancora alta negli stabilimenti del comasco, venne effettuata una distribuzione di viveri e vestiario a prezzo bianco.
Inoltre il comando della Gnr comasca informava che:
8 aprile 1944. La precettazione di manodopera femminile per il servizio di lavoro in Germania provoca vivo malcontento. I commenti nelle fabbriche sono violenti, si parla di schiavismo.
15 aprile 1944. Nelle maestranze femminili perdura il noto malcontento determinato dalla precettazione per il servizio di lavoro in Germania. Nel settore industriale è motivo di seria preoccupazione la mancanza d'acqua che incide sulla produzione di energia elettrica.
Proprio questi motivi, la mancanza di energia elettrica e le difficoltà di approvvigionamento delle materie prime, producono una contrazione dell' attività industriale che si ripercuote sui lavoratori, i quali però non subiscono sempre passivamente.
Il 17 corrente, in Meda, stante la riduzione dell' energia elettrica, la direzione degli stabilimenti Isotta Fraschini; stabilì che su 700 operai normalmente impiegati soltanto 309 prendessero lavoro. Al mattino del predetto giorno si presentarono 38 operai non inclusi nel turno chiedendo di lavorare. La direzione dello stabilimento non accolse la richiesta provocando, per solidarietà, l'astensione dal lavoro di tutte le maestranze. Il lavoro venne ripreso alle 13.30 in seguito all'intervento dei dirigenti.
Anche a Carate Brianza si sciopera, alle Officine meccaniche Formenti si protesta contro la decisione d'inviare alcuni lavoratori in Germania. Per ordine del Capo della provincia, il Commissario del Sindacato dei lavoratori di Milano si recò sul posto ed annullò il provvedimento, le maestranze ripresero così il lavoro. Il 22 maggio a Seregno allo stabilimento Ambrogio Silva, 300 operai iniziano lo sciopero in segno di protesta contro la precettazione per il lavoro nel Reich di 30 loro colleghi.
La grande manifestazione di questa primavera del '44 chiarì, parlando più in generale, agli esponenti della Resistenza, e soprattutto a quelli appartenenti al movimento garibaldino, molte cose riguardo i metodi di lotta da assumere. Innanzitutto emerse l'equivoco dello scambio dello sciopero per l'inizio di un'insurrezione. Gli operai di diverse fabbriche aspettavano l'arrivo dei partigiani per una supposta azione di rivolta totale. Ciò non avvenne, perché questo non era in definitiva il compito dei Gap, le uniche formazione organizzate in città, che tra l'altro versavano in una drammatica situazione a causa dei numerosi arresti subiti. Da questo e dagli arresti che cominciarono ad effettuarsi fra le maestranze, emerse la scarsità e il poco peso delle cellule partigiane di fabbrica, le cosidette squadre di difesa operaie. Si rese pian piano evidente, quindi, la necessità di una diffusione maggiore del movimento di opposizione politico, ma soprattutto militare, di tipo non elitario, come per i Gap, ma popolare ed esteso, mirando ad una partecipazione più larga da parte della popolazione cittadina. E da questo momento, e dal rilievo di queste situazioni, che si comincia a pensare e a meditare nell' ambito del Partito comunista a nuove forme di lotta resistenziale e a nuove strutture, riflessioni che porteranno fra qualche mese all'istituzione delle Sap (Squadre d'azione patriottica) cittadine, che si diffonderanno anche in Brianza.
Ma da parte fascista e tedesca come si reagì davanti agli scioperi di questo periodo? Dopo un primo momento di stupore e di sorpresa e constatata la valenza politica di queste manifestazioni, si tentò prima di renderle vane mettendo in ferie il personale, oppure con le serrate, che avevano lo scopo di piegare la determinazione degli operai sospendendo il pagamento dei salari e riducendo la distribuzione dei generi alimentari. In alcuni stabilimenti si effettuarono dei licenziamenti; accadde ad esempio a Ronco Briantino, dove il cotonificio-manifattura F.lli Nobili-De Ponti, d'accordo con il capo della provincia, licenziò 63 operai, pare però che in questo caso la motivazione del provvedimento fosse dovuta più che altro alla totale mancanza di materie prime. Come già rilevato, il problema dell'approvvigionamento era per l'industria, in quel momento, una vera e propria piaga, che incideva profondamente sull' occupazione. Altri esempi si possono citare a prova di ciò, come la ditta Enrico Mariani saponeria Junior di Seregno, che già il 3 gennaio aveva dovuto licenziare 50 operai per l'impossibilità di lavorare.
Ma il provvedimento più duro e più gravido di conseguenze, fu senza dubbio l'arresto di molti operai, e non solo di quelli che più si esposero nello sciopero. Infatti i lavoratori che nei giorni successivi alla fine della manifestazione, si videro prelevare dalle loro case, nemmeno lontanamente potevano immaginare ciò che li aspettava, ciò che avrebbe rappresentato per loro la deportazione nei campi di sterminio.
I deportati nei campi di sterminio
Con gli arresti successivi agli scioperi del marzo 1944, si ebbe un'impennata del numero dei trasferimenti nei lager tedeschi.
Per ciò che riguarda la Brianza, il fenomeno della deportazione non è assolutamente da sottovalutare. I numeri, pur nella loro aridità, parlano chiaro. Sono 175 i morti brianzoli nei lager e 46 i sopravvissuti. Quest'ultima cifra è in difetto in quanto desunta dal Supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n°130 del 22 maggio 1968, che riportava i nominativi di coloro che avevano richiesto l'apposita pensione spettante ai deportati; è facile immaginare che alcuni per mancata conoscenza non abbiano iniziato la pratica prevista. Quindi in totale ben oltre duecento sono i deportati, di cui solo un quinto ha salvato la vita.
Gli operai, presi soprattutto dopo gli scioperi della primavera del '44, costituirono circa la metà del gruppo brianzolo che conobbe la realtà dei campi di sterminio. Una quota importante, ma anche allucinante nelle sue caratteristiche. Vi figurano dai cinquantenni ai diciassettenni, molti padri di famiglia che lasciarono orfana una consistente figliolanza. Ma a chi andò a prelevare Valentino Rivolta, 3O anni di Macherio, operaio alla Hensemberger di Monza dove aveva diffuso stampa clandestina e partecipato allo sciopero, nulla importava delle sue tre piccole bambine, lo caricarono su un treno merci e lo mandarono a morire a Mauthausen. Come nessuno ebbe rispetto per Battista Caproni, panettiere simpatizzante dei partigiani di Cesano Maderno e maturo padre anch' esso di tre figlie.
Operai, oppositori politici e partigiani che fossero, non furono solo i tedeschi che andarono ad arrestarli. Anzi, molto più spesso furono i fascisti, che meglio conoscevano luoghi e tendenze politiche dei ricercati.
Generalmente il percorso seguito dagli arrestati prevedeva un breve periodo di reclusione nelle carceri di Monza o alla villa Reale, prima di passare al carcere di S. Vittore. Di lì si proseguiva per il campo di smistamento di Fossoli, nel modenese, e dopo l'estate del '44 in quello di Bolzano e quindi il trasferimento in Germania. Dal campo di Bolzano, dal luglio 1944 all'aprile 1945, si calcola che passarono almeno 11.000 persone.
In totale, morirono nei campi di sterminio quasi 9.000 italiani (ebrei esclusi). Nell'elenco dei caduti brianzoli nei lager, ancora per quel che riguarda gli arresti fra gli operai dopo lo sciopero del marzo '44, è la sequenza dei rastrellamenti mirati effettuati in Brianza. Anche se per tutto il mese di marzo si segnalano arresti, c'è un periodo culminante in cui i fascisti e i tedeschi si scatenarono. È quello compreso tra il 10 e il 15 del mese, in particolare il giorno 11 fu cruciale per gli operai monzesi che lavoravano alla Falck soprattutto e alla Breda; ne furono incarcerati undici. Poi il giorno 14 con nove catturati di cui ben sette della Breda; sembrano retate pianificate a secondo degli stabilimenti di appartenenza, in quanto in ogni giorno prevalgono operai provenienti dalla stessa fabbrica. Anche il 10 marzo, ad esempio, dei tre arrestati due sono della Innocenti.
In definitiva, dunque, 170 famiglie in Brianza persero un uomo, senza sapere dove era finito ed ignorando, fino a poco dopo la fine della guerra, che era morto e come era morto.
I sopravvissuti, in molti, fecero il loro dovere di testimonianza che permise di scoprire quegli orrori". (da “La Resistenza in Brianza 1943-1945” di Pietro Arienti)
Gli scioperi del 1943 e 1944 in Italia
«Le agitazioni operaie si diffusero da Torino, vero epicentro della protesta operaia, a partire dal 5 marzo, nelle altre città del Piemonte (Asti, Cuneo, Alessandria, Vercelli) e alla fine di marzo le agitazioni coinvolsero anche Milano e il resto della Lombardia. Infatti, a partire dalla giornata del 24 e per tutta l’ultima settimana del mese, il centro della lotta si spostò a Milano, Varese e Como con un’appendice finale espressiva che si registrò nei primi giorni di aprile nuovamente in Piemonte, in particolare nei lanifici di Biella.
I reali protagonisti delle agitazioni operaie, al di là dell’ultima settimana guidata dalle maestranze tessili biellesi, furono quindi gli operai metalmeccanici delle grandi aziende torinesi e milanesi, dalla FIAT Mirafiori alla Falck di Sesto San Giovanni, ai Caproni, alla Ercole Marelli, alle Officine Fratelli Borletti, Bianchi, eccetera. Tuttavia, episodi significativi di lotta si registrarono sia in altre regioni italiane, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, passando per Emilia Romagna, Liguria, Toscana, Marche, che negli altri settori manifatturieri oltre che nei rami “chimici” a partire dalle miniere, alle aziende del vetro, nel settore della concia e in quello delle fibre tessili artificiali, ma soprattutto nel settore della gomma, con gli scioperi alla Pirelli di Milano.
Gli operai scesero in sciopero e diedero avvio alla contestazione aperta contro il Regime chiedendo “pane e pace”, quindi, dissociandosi dalla guerra fascista, considerata sbagliata e ingiusta, e segnando la sconfitta di Mussolini sul fronte interno attraverso la perdita definitiva del consenso già prima della sua destituzione.
Gli scioperi operai del marzo-aprile 1943 rappresentano le prime agitazioni di massa dopo quasi un ventennio di repressione sociale.
Tuttavia va sottolineato come il corporativismo fascista e la storia stessa del sindacalismo fascista avevano rappresentato il tentativo di integrare le masse lavoratrici all’interno dello Stato autoritario. Non a caso, nei momenti di crisi, la conciliazione con il mondo del lavoro appare in maniera evidente – anche alle classi dirigenti più retrive – come l’unico modo per evitare il dissolvimento finale.
Di fatti, prima che l’Italia si ritrovasse spezzata in due, sotto il governo Badoglio, nel momento di maggiore disorientamento delle classi dirigenti del Paese, viene concluso l’accordo Buozzi-Mazzini per il riconoscimento delle Commissioni interne: vi è la consapevolezza che la Nazione non può sopravvivere senza riaprire quantomeno il dialogo con il mondo del lavoro. E immediatamente dopo gli anglo-americani capiranno che le forze vive e affidabili del paese sono le forze sociali e sosterranno la riorganizzazione sindacale già decisamente avviata dai lavoratori in tutte le province liberate del Paese. E lo stesso Mussolini, attraverso le norme di indirizzo generale approvate dal Consiglio dei Ministri della RSI, puntava alla impossibile riconciliazione con il mondo del lavoro, proponendo il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle imprese e, più in generale, proponendo una disperata riedizione del fascismo sociale delle origini e rispolverando i motivi anti-borghesi della prima ora.
Ma la strada intrapresa dal mondo del lavoro portava inequivocabilmente verso la democrazia e verso la ricostruzione su nuove basi della vita civile ed economica italiana. Il momento di rottura più significativo che emerge appunto nel primo ciclo di lotte, attraverso gli scioperi del marzo ’43, lo si ha attraverso la presa di distanza dalla guerra fascista. E’ l’atteggiamento di fronte alla guerra che determina la vera rottura tra il fascismo e il Paese. Il senso di una disfatta, quale quella che segue al 25 luglio e all’8 settembre, che è decisiva per dare al mondo del lavoro la percezione della caduta, della vera e propria cesura della storia nazionale.
Gli scioperi, pur nascendo da esigenze strettamente economiche, ebbero una forte valenza politica ponendo al centro i tre temi della libertà, della pace e del lavoro. Inoltre, le lavoratrici e i lavoratori scesi in piazza si riappropriarono con forza, seppure per breve tempo e senza particolari effetti immediati, di una delle tante libertà calpestate dalla dittatura: lo sciopero il cui divieto era stato sancito nel 1926 dal fascismo.
In seguito, la destituzione di Mussolini e la sua sostituzione con il maresciallo Badoglio, e la fine del fascismo, aprono a un periodo di intensa attività politica all’interno dei Comitati di opposizione cittadini e nelle neo-costituite Commissioni interne di fabbrica. Al contempo l’occupazione dell’Italia del Nord da parte della Germania hitleriana, all’indomani dell’armistizio con le forze anglo-americane, e la costituzione della Repubblica sociale italiana danno avvio ad una nuova fase.
Gli scioperi e i sabotaggi alla produzione nelle fabbriche del nord caratterizzano questo periodo che vede la partecipazione diretta dei lavoratori nei Comitati di agitazione, nelle squadre armate dei cittadini e nelle brigate partigiane.
In questo clima si inscrive lo sciopero del 1944, guidato dalla classe lavoratrice. La connotazione e la dimensione politica che si concretizza negli scioperi del 1943 e, ancor più, del marzo 1944 non nasce improvvisa, ma ha alla base una vasta azione di vero e proprio antifascismo che precede il momento insurrezionale, traslandolo dalla dimensione più economica a una più esplicitamente politica. Antifascismo e lotta contro l’occupazione tedesca, quindi, si mescolano e si intrecciano con la repressione repubblichina e la deportazione nazista, complici le strutture e la proprietà delle fabbriche, determinando un nuovo flusso di deportati, che vide protagonisti migliaia di lavoratori italiani a partire dagli operai delle aree industriali ai contadini e braccianti.
Lo sciopero generale del 1944 segna il passaggio definitivo del mondo del lavoro all’azione diretta, alla resistenza più ferma e alla guerra partigiana che assumerà definitivamente i caratteri di guerra di popolo contro l’occupazione nazi-fascista. È in questa fase che diventa ancora più decisivo l’apporto di tutte le categorie di lavoratori, di tutto il mondo del lavoro, mentre si consuma progressivamente e definitivamente il distacco dell’intera nazione dal fascismo. E il ciclo di lotte dei lavoratori del 1943-1944 – col passaggio dalla richiesta di pace all’aperta resistenza contro la Repubblica di Salò – è l’esperienza che darà poi le più solide basi di massa all’azione insurrezionale dell’aprile 1945.
Così nel marzo del 1944, la reazione operaia – e questa volta con una estensione straordinaria – annientò il tentativo della Repubblica sociale italiana di tessere nuovi rapporti col mondo del lavoro, di recuperare il consenso perduto attraverso i progetti di socializzazione e attraverso tutte le proposte tardive, velleitarie e contraddittorie del governo mussoliniano di Salò.
La classe operaia italiana che giunge agli scioperi del ’43-44 è una classe che riacquista piena fiducia nelle proprie forze; si assiste al passaggio da una fase difensiva e di lotta di tipo quasi esclusivamente economico, ad una offensiva in cui la caratterizzazione è essenzialmente di natura politica. Non si sciopera solamente contro gli industriali e i padroni, ma contro il fascismo, contro la guerra fascista e a sostegno della lotta partigiana, per l’insurrezione, per la libertà e per la democrazia.
La fabbrica, ma non solo la grande fabbrica, ritorna ad essere quello spazio di socializzazione politica che vent’anni di dittatura non erano riusciti mai a neutralizzare del tutto. A Milano, infatti, i tranvieri paralizzano la città e accanto agli operai entrano in sciopero anche gli impiegati e gli studenti universitari. Emblematico è inoltre lo sciopero del più autorevole giornale della borghesia italiana, il “Corriere della sera”. Le campagne tornano in fermento in tutta Italia. Lo svolgimento degli scioperi al Nord, infatti, è parallelo all’avvio del grande ciclo delle lotte per la riforma della terra partita dal Mezzogiorno, parallelamente all’avanzata Alleata, che contrapponeva la struttura politico e sociale del regime fascista alla opportunità apertasi con i ‘Decreti Gullo’.
È in questa fase che diventa ancora più decisivo l’apporto di tutte le categorie di lavoratori, di tutto il mondo del lavoro, mentre si consuma progressivamente e definitivamente il distacco dell’intera nazione dal fascismo. E il ciclo di lotte dei lavoratori del 1943-1944 – col passaggio dalla richiesta di pace all’aperta resistenza contro la Repubblica di Salò – è l’esperienza che darà poi le più solide basi di massa all’azione insurrezionale dell’aprile 1945.»
Dalla relazione di Adolfo Pepe, direttore della Fondazione Di Vittorio, al convegno tenutosi al Palazzo delle Stelline a Milano il 10 marzo 2007, dal titolo: I lavoratori, il Sindacato e la lotta di Liberazione. "Dagli scioperi del Marzo 1943 ai GAP"
8 marzo: Giornata internazionale della donna
Oltre il ponte
O ragazza dalle guance di pesca
Ragazza dalle guance d’aurora,
o spero che a narrarti riesca
La mia vita all’età che tu hai ora.
Coprifuoco: la truppa tedesca la città
dominava. Siam pronti.
Chi non vuole chinare la testa
Con noi prenda la strada dei monti.
Avevamo vent’anni e oltre il ponte
Oltre il ponte ch’è in mano nemica,
Vedevam l’altra riva, la vita.
Tutto il bene del mondo oltre il ponte.
Tutto il male avevamo di fronte.
Tutto il bene avevamo nel cuore.
A vent’anni la vita è oltre il ponte.
Oltre il fuoco comincia l’amore.
...
Non è detto che fossimo santi,
L’eroismo non è sovrumano.
Corri, abbassati, dài, balza avanti.
Ogni passo che fai non è vano.
Vedevamo a portata di mano,
Dietro il tronco, il cespuglio,
il canneto l’avvenire di un mondo
più umano, più giusto,
più libero e lieto.
Avevamo vent’anni e oltre il ponte ...
Ormai tutti han famiglia, hanno figli.
Che non sanno la storia di ieri. Io son
Solo e passeggio tra i tigli
Con te, cara, che allora non c’eri.
Vorrei che quei nostri pensieri
Quelle nostre speranze d’allora
Rivivessero in quel che tu speri,
ragazza color dell’aurora.
Avevamo vent’anni e oltre il ponte ...
Italo Calvino
8 Marzo
Al fianco delle donne rifugiate e sfollate
Oggi, in cui il mondo celebra la Giornata Internazione della Donna, il nostro pensiero non può che rivolgersi alle donne ucraine: a quante tra di loro fuggono abbandonando tutto pur di portare in salvo i propri figli e a tante altre che sono ancora all’interno del Paese.
Pietra d'inciampo 2023
In memoria del deportato lissonese Aldo Fumagalli.
Chi era ALDO FUMAGALLI
Una nuova Pietra d’Inciampo: un ulteriore tassello del progetto monumentale diffuso e ideato dall’artista tedesco Gunter Demnig per tenere viva la memoria delle persone che persero la vita nei campi di concentramento e di sterminio nazisti durante la Seconda guerra mondiale, per ricordare le vittime in un luogo simbolo della loro vita quotidiana prima della deportazione, invitando nel tempo chi passa a riflettere su quanto accaduto e a non dimenticare.
Nel Giorno della Memoria, venerdì 27 gennaio, l’Amministrazione Comunale di Lissone celebrerà la ricorrenza con una cerimonia pubblica, in via Jenner angolo via Fleming con inizio alle ore 11.
Alla presenza delle autorità politiche, civili e religiose, dei rappresentanti del Comitato per le Pietre d’Inciampo di Monza e Brianza, dei discendenti della vittima e di una delegazione di studenti delle scuole secondarie di secondo grado della città, avverrà la posa simbolica della Pietra d’Inciampo davanti a quella che fu Cascina Panceri, luogo di nascita e residenza fino alla deportazione di Aldo Fumagalli: una targa in suo ricordo verrà deposta in via Jenner angolo via Fleming, dove nei prossimi mesi sarà posizionato il sampietrino d’ottone definitivo realizzato da Demnig. Un piccolo blocco quadrato, incastonato nel suolo, su cui sarà inciso il nome, l’anno di nascita, il giorno e il luogo di deportazione, la data di morte della vittima. Un invito costante alla commemorazione della persona e alla riflessione per l’intera comunità cittadina.
Con quest’ultima saranno cinque le pietre posizionate a Lissone, dopo quella dedicata a Giulio Colzani (Pietra d’Inciampo 2022) in via Piave, a Gian Franco De Capitani da Vimercate (Pietra d’Inciampo 2021) in via Padre Reginaldo Giuliani, ad Attilio Mazzi in via Matteotti (Pietra d’Inciampo 2020), a Mario Bettega in via Dante all'esterno dello stadio Luigi Brugola (Pietra d’Inciampo 2019), la prima posata nell’anno della fondazione del Comitato per le Pietre d'Inciampo della Provincia di Monza e Brianza.
Iniziative per il giorno della Memoria a Lissone:
alcuni momenti della cerimonia
intervento del Presidente dell'ANPI provinciale Fulvio Franchini
Giorno della Memoria 2023
Sabato 21 Gennaio 2023 alle ore 16,30 si terrà, presso la sala al piano terra di Villa Magatti, il concerto multimediale “ TU CHE M'HAI PRESO IL CUOR ”.
Organizzato dall'ANPI di Lissone in occasione della Giornata della Memoria, il concerto multimediale “Tu che m'hai preso il cuor. Vienna - Auschwitz: dal Paese del sorriso al Campo della morte", ha il patrocinio del Comune.
Il concerto è curato dal musicista, storico e ricercatore Maurizio Padovan e ripercorre la storia di Friedrich Löhner, che per le sue satire contro il regime nazista e le sue origini ebree venne deportato nei campi di Dachau, Buchenwald, e Auschwitz, dove fu ucciso.
Tutti, almeno una volta, hanno sentito cantare la celebre canzone “Tu che m’hai preso il cuor”. Pochi, però, sanno che le parole di questa famosissima romanza furono scritte da Friedrich Löhner.
L’ingresso è libero e aperto a tutta la cittadinanza.
Natale 2022
In occasione del Natale, la nostra Sezione è in piazza Libertà con la casetta di legno messa a disposizione dall'Amministrazione comunale per le associazioni, sabato 10 e domenica 18 dicembre. Per l’occasione troverete libri, magliette ed altri gadget, oltre all'amaro partigiano. Venite a trovarci. Sarà possibile fare nuove iscrizioni e prenotare la tessera 2023.
È una delle numerose iniziative previste per il Natale lissonese.
Il fascismo e la radio
Il fascismo seppe fare un abile uso di tutti gli strumenti di propaganda. A questo scopo non poteva sfuggire uno strumento innovativo e potente come la radio. Il fascismo si rese conto progressivamente delle potenzialità della radio e delle possibilità di sfruttarla. A una fase di disinteresse, quando la radio trasmetteva soprattutto musica e l'elemento fascista si limitava al ritornello della canzone Giovinezza, seguì un periodo di grande attenzione e uno sviluppo significativo degli apparati di trasmissione. A poco a poco personalità fasciste di primo piano divennero frequentatori della radio; i programmi letterari erano preceduti da introduzioni che fornivano una interpretazione fascista dei brani letti, i notiziari giornalieri si attenevano alle direttive del regime.
Malgrado la radio fosse principalmente il prodotto dell'opera dell'inventore italiano Guglielmo Marconi, quando, nell'ottobre 1922, Mussolini salì al potere, l'Italia era, quanto a sviluppo di una rete radiofonica nazionale, sensibilmente indietro rispetto agli altri paesi.
Non era stata ancora costruita alcuna emittente che funzionasse continuativamente, e la radiofonia restava, in buona parte, nella fase sperimentale. [...]
Negli Stati Uniti la costruzione di apparecchi radio e la radiofonia erano già un grosso “business”: 11,5 milioni gli apparecchi radio in funzione.
Il fatto che nella penisola la radio si sviluppasse pressoché per intero durante il periodo fascista rese a Mussolini relativamente facile porre questo importante mezzo di comunicazione sotto il suo pieno controllo (erano gli stessi anni in cui si consolidava il suo potere politico sullo Stato italiano). In verità, il valore potenziale della radio come veicolo di propaganda e di standardizzazione culturale non apparve immediatamente chiaro a Mussolini. Ma, una volta riconosciute pienamente le sue implicazioni, i fascisti procedettero a sviluppare e sfruttare la radio facendone uno strumento decisivo della loro politica culturale. [...]
Nel settembre 1929, 6 erano gli impianti in funzione: Roma, Milano, Napoli, Bologna, Genova, Torino.
I poteri di controllo fondamentali - quelli concernenti la selezione e la distribuzione del materiale da trasmettere - erano nelle mani dello Stato, e la struttura amministrativa di questi servizi era destinata a rimanere sostanzialmente immutata, eccettuati ritocchi di minor rilievo, per quasi un decennio. [...] Piuttosto limitato era il numero dei possessori di apparecchi radio che avevano l'obbligo di versare un canone annuale di abbonamento all'EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche).
La concessione del servizio delle radioaudizioni circolari era stata accordata dal Governo (con convenzione 15 dicembre 1927 fino al 15 dicembre 1952) all’URI (che dal 15 gennaio 1928 aveva assunto la nuova denominazione EIAR — Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche).
Nel 1926 gli abbonati ai servizi radiofonici dell'URI (Unione Radiofonica Italiana, prima società di diffusione radiofonica in Italia, fondata nel 1924) erano stati circa 27.000; due anni dopo il totale degli abbonamenti era passato a circa 61.500.
Anche supponendo che ciascun apparecchio servisse una decina di persone, il numero totale degli italiani raggiunti dalle trasmissioni restava modestissimo. Si registrava inoltre una grossa sproporzione nella distribuzione geografica degli apparecchi. [...] Negli anni successivi questa sproporzione si sarebbe alquanto attenuata, ma una certa disparità nella localizzazione geografica degli apparecchi radioriceventi si mantenne durante tutto il periodo fascista.
Prima del 1930 i programmi dell'EIAR non erano troppo appesantiti da una propaganda fascista diretta. Ma a cominciare dal 1926 le trasmissioni andarono sempre più politicizzandosi, e sempre più si fece sentire su di esse l'influenza delle scelte del regime. Mussolini parlò alla radio per la prima volta il 4 novembre 1925 dal teatro Costanzi in Roma, ma la trasmissione fu ostacolata da difficoltà tecniche. In quegli anni il maggior trionfo di Mussolini in fatto di oratoria radiofonica fu il discorso sulla “Battaglia del grano” (10 ottobre 1926).
Gli orari di trasmissione dei programmi erano pubblicati su “Il Radiorario”, che, dal Gennaio 1930, assume la denominazione di Radiocorriere.
Biografia:
Philip Cannistraro - La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media - Laterza, Roma-Bari 1970