Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"
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La Grande rafle du Vel d’Hiv

13 Octobre 2023 , Rédigé par Renato Publié dans #la persecuzione degli ebrei

Vento primaverile”, così era stata denominata la retata degli ebrei in Francia, non sarà che una tappa della “soluzione finale”.

Due SS, il Haupsturmführer Dannecker e Röthke, sono gli ufficiali tedeschi organizzatori responsabili del “Vento primaverile” (così era stata denominata la retata degli ebrei). Dirigevano la Sezione IV B4 della Gestapo a Parigi, definita IV J “della repressione antiebraica”. Avevano avuto l’onore di ricevere le consegne per l’operazione “Vento primaverile” direttamente dal generale delle SS Reinhardt Heydrich, che era venuto a Parigi il 15 maggio (1942), poco tempo prima della sua morte. Tredici giorni dopo, infatti, il 28 maggio, Reinhardt Heydrich fu ucciso a Praga da due paracadutisti cechi venuti da Londra per compiere la loro missione.

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Dando questi ordini, Heydrich non faceva che portare a termine le decisioni assunte nel corso della conferenza chiamata di Wannsee, nel corso della quale, nel gennaio 1942, era stato deciso lo sterminio degli ebrei europei. Infatti, è durante questa conferenza svoltasi a Berlino al 56 e 58 di Grossen Wannsee-Strasse, nell’ufficio di Eichmann, che i nazisti elaborarono definitivamente la “soluzione finale”, cioè l’annientamento totale degli ebrei europei. L’elite delle SS erano in quel giorno riuniti a Wannsee-Strasse, sotto la presidenza di Heydrich, Eichmann e l’SS Müller.

Vento primaverile”, in Francia, non sarà che una tappa della “soluzione finale”.

Il 16 luglio 1942, all’alba, iniziò a Parigi una vasta operazione di polizia, denominata “Vento primaverile”. Voluta dalle autorità tedesche, mobilitò circa 9.000 uomini delle forze del governo di Vichy. Quel giorno e quello seguente, 12.884 ebrei furono arrestati, tra loro 4.051 bambini. Mentre i celibi e le coppie senza figli furono condotte nel campo di internamento di Drancy, le famiglie, circa 7.000 persone, vennero rinchiuse nel Velodrome d’Hiver. Lì vi rimasero più giorni fino al loro internamento a Pithiviers e a Beaune la Rolande (prima di essere deportati nei lager in Germania e in Polonia), in condizioni spaventose, quasi senz’acqua ne viveri.

«L’alzata di spalle di una guardia è rimasta più profondamente impressa nella mia memoria che non le urla delle vittime» Arthur Koestler

Il libro “La Grande rafle du Vel d’Hiv” è frutto di una lunga inchiesta che mette in evidenza la schiacciante responsabilità del governo di Vichy nella deportazione degli ebrei di Francia. Rimane ancora oggi il documento di riferimento sul crimine del “Giovedì nero” del luglio 1942.

Gli autori del libro sono Claude Lévy e Paul Tillard.

Nato nel 1925 a Enghein-les-Bains, Claude Lévy partecipa alla Resistenza prima in Combat poi nel FTP-MOI (35a Brigata). Arrestato nel dicembre 1943, imprigionato, consegnato ai tedeschi, viene deportato il 2 luglio 1944. Riesce a fuggire e raggiunge i partigiani.

Sua madre, suo padre e numerosi altri membri della sua famiglia, arrestati dalla Polizia e dalla polizia di Vichy, perché ebrei, furono deportati e sterminati a Auschwitz.

Paul Tillard, nato nel 1914 a Soyaux (Charente), entrò presto nella Resistenza. Venne arrestato dalla polizia di Vichy nell’agosto 1942. Consegnato alla Gestapo venne inviato come ostaggio nel forte di Romainville e poi deportato nell’aprile del 1943 nel lager di Mauthausen, in Austria. Liberato il 6 maggio 1945, pubblicò, al suo ritorno, la prima testimonianza francese sui campi di concentramento nazisti.

Il 27 luglio 1966, a cinquantuno anni, Paul Tillard morì in seguito alle conseguenze della deportazione. 

Bibliografia:

Claude Lévy e Paul Tillard - La grande rafle du Vel d’Hiv – Ed. Laffont 1992

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La conferenza di Wannsee

13 Octobre 2023 , Rédigé par Renato Publié dans #la persecuzione degli ebrei

È durante questa conferenza svoltasi a Berlino al 56 e 58 di Grossen Wannsee-Strasse, nell’ufficio di Eichmann, che i nazisti elaborarono definitivamente la “soluzione finale”, cioè l’annientamento totale degli ebrei europei.

 

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La conferenza di Wannsee si doveva tenere il 7 dicembre 1941, ma fu rinviata a causa degli importanti avvenimenti che si verificarono quel giorno: attacco giapponese a Pearl Harbor, e la conseguente entrata in guerra degli Stati Uniti.

Convocata su incarico di Eichmann, per iniziativa di Heydrich, che a sua volta era stato incaricato da Goering, infine si tenne il 20 gennaio 1942, in un grande salone-ufficio del palazzo al numero 56-58 di Wannsee-Strasse. C’era un grande camino dove bruciava della legna. Il verbale della riunione specificava che “la soluzione finale del problema ebreo in Europa dovrà essere applicata a 11 milioni di persone ... Al fine di attuare la soluzione finale del problema, gli ebrei dovranno essere trasferiti sotto buona scorta all’Est ed essere impiegati nel servizio del lavoro. Incolonnati, gli ebrei validi, uomini da una parte e donne dall’altra, saranno condotti in questi territori per costruire strade; è implicito che gran parte di loro si autoeliminerà naturalmente per il loro stato di deperimento fisico; I rimanenti che sopravvivranno e quelli che si considereranno come la parte più resistente, dovrà essere trattata di conseguenza».

Diversi documenti attribuiscono il significato esatto alla parola “trattamento” e indicano, senza alcuna ambiguità, che si intendeva semplicemente la morte.

«Quando gli altri partecipanti se ne andarono, rimasero soli Heydrich, Müller e Eichmann nell’ufficio, scherzando mollemente seduti in comode poltrone dinnanzi al camino. Heydrich era particolarmente contento ... Fumava ... Heydrich mi chiese in che modo si dove essere redigere il protocollo d’intesa; poi siamo rimasti noi tre seduti; mi ha offerto uno o due bicchieri di cognac, o tre ... Poi loro se ne sono andati e io mi sono seduto nel mio ufficio per stendere il protocollo» racconterà poi Eichmann.

Bibliografia:

Claude Lévy e Paul Tillard - La grande rafle du Vel d’Hiv – Ed. Laffont 1992

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La guerra totale applicata all’Italia - La strage di Meina

8 Octobre 2023 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

15 settembre 1943

Tre fatti esemplari segnano, alle origini, il rapporto fra i resistenti e l'occupante (nazista): la strage di Meina, l'incendio di Boves, la battaglia di San Martino. Ovverossia il genocidio e la guerra totale applicati all'Italia. Questi tre episodi di paura e di sangue servono a illustrare i modi e le ragioni della guerra totale, e l'odio dell'italiano per chi non è più, scrive Croce, «l'umano avversario / nelle umane guerre / ma l'atroce presente nemico / dell'umanità». Un nemico omogeneo in cui l'italiano del settembre (1943) non distingue fra soldato e poliziotto, fra tedesco e nazista, fra giovane e vecchio, fra ardito e riservista: «I territoriali», si legge in un diario, «non è che siano meno feroci dei loro compagni combattenti. Torturano per dare l'esempio, fucilano, impiccano». Un nemico odiato dopo tanti nemici combattuti senza ragione e senza odio. Per gli italiani umili il tedesco è il diavolo. Su una cappella valdostana si legge la dedica alla Madonna: «Pour nous avoir sauvé des Allemands».

La strage di Meina (15 settembre 1943) 

Meina è un villaggio residenziale sulla riva del lago Maggiore, luogo di rifugio, nel settembre del 1943, di famiglie israelite. Alcune hanno qui le loro ville; gli ebrei rimpatriati da Salonicco dopo l'occupazione tedesca abitano in albergo. Le famiglie Fernandez, Mosseri, Torres, Modiano ali hotel Meina dove è arrivata da Milano, la famiglia Pombas; in tutto, diciassette persone. Nei giorni dell'armistizio passano le punte motorizzate tedesche che vanno a chiudere i valichi con la Svizzera, ma il 15 settembre un reparto SS mette presidi nei centri rivieraschi e il Comando a Baveno. Sono SS reduci dal fronte russo, specializzate nella strage dell’ebreo; lassù il massacro è finito, qui si può continuare, anche se, al confronto si tratterà di briciole.

Un plotone viene diritto all'hotel, cattura gli ebrei. Chi li ha indirizzati? Le voci corrono nel piccolo paese sulla riva del lago. Si dice che siano stati i Petacci, i parenti di Claretta l'amante di Mussolini, per vendicare le ironie e gli insulti del periodo badogliano. C'è chi parla invece di un cliente novarese: avendogli l'albergatore rifiutato una stanza, lo avrebbe denunciato come ebreo che favorisce gli ebrei. A fine guerra si racconterà di misteriosi giustizieri in divisa inglese (gli israeliani della VIII armata britannica?) venuti da Milano a regolare i conti. Ma non c'è niente di certo, i fatti certi sono questi, che avvengono, dal 15 settembre, nell'albergo.

I diciassette ebrei dopo la cattura sono stati riuniti in un salone al terzo piano. Sentinelle davanti alla 'porta, proibizione di avvicinarsi, unica eccezione per una signora milanese «ariana» fidanzata di un Pombas. Alla notizia della retata c'è stato il fuggi fuggi degli ebrei dalla costa, ma qualcuno non ha potuto evitare la cattura. Trascorrono sette giorni: gli ebrei sempre chiusi nel salone del terzo piano gli «ariani» che riprendono la solita vita. Siamo in tempi, di grandi egoismi e le SS si mostrano cortesi con gli «altri». Il 22 giunge da Baveno un giovane ufficiale di nome Krüger, riunisce gli «altri» e dice: «Vi avviso che stanotte trasporteremo gli ebrei in un campo di lavoro. Prego scusare se ci sarà un po' di disturbo». E agli ebri tramite l'interprete, la signora Rosenberg: «stanotte partite per un campo di lavoro che è a duecento chilometri. Restano, per il momento nonno Fernandez e i suoi tre nipotini. Troveremo per loro un mezzo di trasporto più comodo».

Il viaggio notturno degli ebrei di Meina non è lungo duecento chilometri, termina appena fuori il paese, in riva al lago. I tedeschi li fanno scendere, ordinano agli uomini di togliersi la giacca (hanno una lunga esperienza, una tecnica precisa, evitano le fatiche inutili come quella di togliere le giacche ai cadaveri da affondare nel lago). Poi li uccidono a colpi di rivoltella alla nuca, gli legano dei pietroni al collo con funicelle di acciaio, li buttano in acqua. E stato un lavoro notturno affrettato: le correnti del lago slegano i pietroni, l'indomani i cadaveri affiorano, i pescatori si avvicinano. Una barca ne traina due a riva mentre passa in bicicletta da Arona la signorina Galliani, frequentatrice dell'hotel Meina: «Ma li conosco» dice «lui è un Fernandez, lei è la signora Maria Mosseri». Arrivano i carabinieri. «Via», dicono, «lasciate stare. I tedeschi non vogliono che ci occupiamo di questa faccenda».

Nella notte fra il 23 e il 24 vengono trucidati il nonno Fernandez e i nipotini. Si odono gli urli dei bimbi, le implorazioni del vecchio, gli spari. La macabra pesca continua. Se affiora un cadavere, le SS lo raggiungono in barca e lo sventrano con le baionette perché si riempia d'acqua. Poi trovano un metodo più sicuro: li trascinano a riva e li bruciano con i lanciafiamme.

Negli altri paesi l'eliminazione avviene giorno per giorno.

Un rapporto dei carabinieri del 30 settembre dà queste cifre di ebrei uccisi e gettati nel lago: Arona 4, Meina 12, Stresa 4, Baveno 14. Forse non è la cifra esatta, ma non è questo che conta. L'ordine di uccidere è arrivato a Baveno da Milano, dal capitano Saewecke.

La lezione di Meina.

La strage degli ebrei sul lago Maggiore dà agli italiani del settembre la lezione agghiacciante del genocidio. Lezione diretta, inequivocabile, che dovrebbe mettere fine alle mormorazioni, ai dubbi. Ma l'incredulità è tenace, l'italiano, come gli altri occupati, come il mondo, non vuole credere a un delitto cosi fuori di misura. Da noi le voci sulla persecuzione sono arrivate da alcuni anni; poi il sospetto del massacro, portato dai nostri soldati, reduci dal fronte russo o dai Balcani. Tutti quegli ebrei deportati; gli altri usati come schiavi; e dietro qualcosa di spaventoso, di inconfessabile.

“Un ebreo vestito di nero correva agitando un bastone; allon­tanava i bambini dalla tradotta, sapeva che i tedeschi sparavano senza pietà. Una ragazza passando lungo la nostra tradotta senza mai sostare, con voce calda, lontana, ripeteva in latino una pre­ghiera: chiedeva pane. Era un'ombra, sembrava uscita da un mondo di bestie” (da “La guerra dei poveri” di Nuto Revelli).

Il diarista italiano che vede e scrive in una stazione polacca, nell'estate del 1942, arriva a immaginare un mondo di bestie, non lo sterminio burocratizzato e scientifico delle camere a gas. I reduci come lui raccontano, ma nell'Italia del 1943 l'opinione pubblica non può pensare la «soluzione finale», cioè lo sterminio di un popolo intero, donne vecchi e bambini. Non ci pensano neppure gli ebrei italiani, anche se ospitano dei correligionari austriaci, cecoslovacchi e francesi sfuggiti al massacro. Nessuno ha visto con i suoi occhi, tutti pensano che «qui non succederà». Molti israeliti italiani non ci credono neppure dopo Meina, neppure nei primi mesi della repubblica fascista. Ce ne sono che si rivolgono al ministro fascista Buffarini Guidi per sapere se è proprio vero. La guida politica della comunità ebraica italiana è mediocre, ferma su posizioni di prudentissima rassegnazione.

Dopo Meina si dà la caccia all'ebreo in tutte le provincie italiane, negli stessi giorni si fa la retata degli israeliti francesi riparati nella valle Gesso, vicino a Cuneo, al seguito della IV armata. Sono circa 900, ne vengono catturati 493, solo 25 sopravviveranno alla deportazione. Caccia ai 55.000 ebrei fra locali e forestieri che si trovano in Italia. I tedeschi occupanti non hanno bisogno di una istruzione particolare: il generale SS, Karl Wolff ha partecipato alla strage in Polonia; il suo braccio destro generale Wilhelm Harster ha eliminato giudei in Olanda; a Trieste c'è Odilo Globocnik, colui che ha insegnato a Adolf Eichmann, il grande organizzatore dell'eccidio, come si possono usare le camere a gas.

(da “Storia dell’Italia partigiana” di Giorgio Bocca)
 

 

Rebecca Behar, Becky, sopravvissuta alla strage di Meina e degli ebrei dal Lago Maggiore del settembre-ottobre 1943, quando aveva poco più di tredici anni, ha dedicato gran parte della sua vita a portare testimonianza di quei tragici avvenimenti in ogni dove e soprattutto nelle scuole. Assieme al marito Paolo, ha incontrato migliaia di studenti, ha raccontato la sua storia ovunque, si è battuta per la verità contro ogni tentativo di strumentalizzazione e banalizzazione, contro ogni forma di razzismo, per salvare la memoria e la dignità di chi in quella orrenda strage scomparve nel nulla.

La sua voce era roca e dolcissima allo stesso tempo, preziosa e insostituibile.

Era cittadina onoraria di Trecate, di cui era cittadina onoraria.

Dal suo prezioso diario che ha lasciato:

Era la camera 410, ultimo piano. Noi eravamo sei: i miei genitori, mia sorella, i miei fratelli. Ci spinsero dentro e c’erano altri sedici ospiti dell’albergo, sprangarono la porta con una sentinella dietro. Cedemmo i materassi agli anziani. C’era chi piangeva, chi pregava, i grandi provavano a farci coraggio. Fuori si sentivano urla, ordini, un gran via vai di tedeschi.

Dopo due giorni una SS, nemmeno ventenne, mi prese da parte e mi chiese: come ti chiami? Becky risposi. E lui: tu sei ebrea, un giorno ti sposerai, farai dei figli ebrei e saranno tutti nemici della grande Germania”.

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Fu un massacro ... a Sant'Anna di Stazzema

2 Octobre 2023 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

 

Il Presidente della Repubblica ha dichiarato:

«Sant’Anna di Stazzema è uno dei luoghi simbolo della tragedia della Seconda Guerra Mondiale in cui affondano le radici più profonde dei valori della Costituzione repubblicana. Un luogo di memoria, di dolore immenso, insensato e ingiustificabile, divenuto emblema di riscatto civile, di ribellione alla violenza più feroce e disumana, di solidarietà, di ricostruzione morale e sociale.

E’ un dovere per la nostra comunità ricordare quanto avvenne settantanove anni or sono a Sant’Anna e nelle altre frazioni di Stazzema, quando militari nazisti delle SS, sostenuti da fascisti locali, misero in atto una delle stragi più efferate del conflitto.

Fu un massacro di vite innocenti. Donne, anziani, bambini - ben oltre cinquecento - vennero uccisi senza pietà. Tanti i corpi bruciati e resi irriconoscibili.

L’Europa toccò il fondo dell’abisso. Neppure l’infamia della rappresaglia poteva giustificare lo sterminio, la strategia dell’annientamento.

Da quegli abissi sono ripartiti il cammino del popolo italiano e del Continente europeo e spetta a ciascuno custodire e consegnare il testimone della memoria alle generazioni più giovani perché possano essere consapevoli protagoniste di un futuro responsabile in cui non siano più messi a rischio i valori della persona umana».  Roma, 12/08/2023 

Il presidente tedesco, il 26 maggio 2020aveva nominato cavalieri due sopravvissuti alla Strage di Stazzema, Enrico Pieri ed Enio Mancini. Enrico Pieri ed Enio Mancini all'epoca dell'eccidio nazista avevano 10 e 6 anni. Il presidente federale tedesco Frank-Walter Steinmeier aveva conferito l'onorificenza di Cavaliere dell'Ordine al Merito della Repubblica Federale di Germania (Verdienstkreuz am Bande) "per le particolari benemerenze acquisite verso la Repubblica Federale di Germania" ai due superstiti. Lo aveva comunicato direttamente agli interessati con una lettera l'ambasciata tedesca a Roma.

Nell'eccidio nazista del 12 agosto 1944 a S.Anna furono trucidati 560 civili, fra cui donne, anziani e bambini. Enrico Pieri aveva 10 anni ed ebbe la famiglia sterminata. Ennio Mancini aveva 6 anni e si salvò in una fase del rastrellamento.

 


I nazisti in ritirata fanno saltare i ponti di Firenze



Agosto 1944

Gli Alleati avanzano verso nord nell’Italia centrale.

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Il 6 agosto i milleseicento partigiani della divisione Garibaldi entrano in azione nelle operazioni per la liberazione di Firenze (verrà liberata il 12 agosto).

Il 5 agosto la Wehrmacht aveva disposto l'evacuazione di Stazzema, paesino in provincia di Lucca ai piedi delle Alpi Apuane. Come in molti altri casi soltanto una parte della po­polazione aveva obbedito all' ordine; anzi fino a quel giorno fa­tale, in seguito al diffondersi di voci tranquillizzanti, non sol­tanto fecero ritorno alle proprie case un gran numero di donne e bambini, ma si rifugiarono a Sant' Anna anche numerosi sfol­lati provenienti da altre frazioni. La sera dell'11 agosto i tedeschi, che ritirandosi oppongono una forte resistenza e si abbandonano ad ogni sorta di eccidi,  emanano un ordine (in tedesco Bandenunternehmen) per «l'impiego delle truppe contro le bande» considerando tutti quelli che abitavano nelle zone di montagna come dei «partigiani».

L'unità della XVI divisione, in cui erano inquad­rati anche soldati italiani delle SS, si muoveva verso Sant' Anna da quattro direzioni. Entrò in azione anche un discreto numero di collaborazionisti, almeno una quindicina. Guidarono i nazisti per le impervie mulattiere che portavano a Sant'Anna, si caricarono sulle spalle cassette di munizioni.

 

Il 12 agosto del ’44 fu un massacro.

All’alba del 12 agosto, reparti di SS, in tutto alcune centinaia, in assetto di guerra, salirono a Sant’Anna.

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Verso le sette il paese era ormai circondato. Gli abitanti non pensavano ad una strage, ma piuttosto ad una normale operazione di rastrellamento. Molti uomini infatti fuggirono, nascondendosi nei boschi. Troppo tardi si accorsero delle reali intenzioni dei nazisti.
Così lo scrittore Manlio Cancogni narra gli avvenimenti di quella terribile giornata: «I tedeschi, a Sant’Anna, condussero più di 140 esseri umani, strappati a viva forza dalle case, sulla piazza della chiesa. Li avevano presi quasi dai loro letti; erano mezzi vestiti, avevano le membra ancora intorpidite dal sonno; tutti pensavano che sarebbero stati allontanati da quei luoghi verso altri e guardavano i loro carnefici con meraviglia ma senza timore né odio.

 


Li ammassarono prima contro la facciata della chiesa, poi li spinsero nel mezzo della piazza, una piazza non più lunga di venti metri e larga altrettanto, una piazza di tenera erba, tra giovani piante di platani, chiusa tra due brevi muriccioli;

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e quando puntarono le canne dei mitragliatori contro quei corpi li avevano tanto vicini che potevano leggere negli occhi esterrefatti delle vittime che cadevano sotto i colpi senza avere tempo nemmeno di gridare.

Breve è la giustizia dei mitragliatori; le mani dei carnefici avevano troppo presto finito e già fremevano d’impazienza. Così ammassarono sul mucchio dei corpi ancora tiepidi e forse ancora viventi, le panche della chiesa devastata, i materassi presi dalle case, e appiccarono loro fuoco.

E assistendo insoddisfatti alla consumazione dei corpi spingevano nel braciere altri uomini e donne che esanimi dal terrore erano condotti sul luogo, e che non offrivano alcuna resistenza.

Intanto le case sparse sulle alture, le povere case di montagna, costruite pietra su pietra, senza intonaco, senza armature, povere come la vita degli uomini che ci vivevano erano bloccate.

Gli abitanti erano spinti negli anditi, nelle stanze a pianterreno e ivi mitragliati e, prima che tutti fossero spirati, era dato fuoco alla casa; e le mura, i mobili, i cadaveri, i corpi vivi, le bestie nelle stalle, bruciavano in un’unica fiamma. Poi c’erano quelli che cercavano di fuggire correndo fra i campi, e quelli colpivano a volo con le raffiche delle mitragliatrici, abbattendoli quando con grido d’angoscia di suprema speranza erano già sul limitare del bosco che li avrebbe salvati.

Poi c’erano i bambini, i teneri corpi dei bimbi a eccitare quella libidine pazza di distruzione. Fracassavano loro il capo con il calcio della «pistol-machine », e infilato loro nel ventre un bastone, li appiccicavano ai muri delle case. Sette ne presero e li misero nel forno preparato quella mattina per il pane e ivi li lasciarono cuocere a fuoco lento. E non avevano ancora finito.

Scesero perciò il sentiero della valle ancora smaniosi di colpire, di distruggere, compiendo nuovi delitti fino a sera.

A mezzogiorno tutte le case del paese erano incendiate; i suoi abitanti fissi e gli sfollati erano stati tutti trucidati. Le vittime superano di gran lunga i cinquecento, ma il numero esatto non si potrà mai sapere.

"Alcuni scampati all’eccidio erano corsi in basso a portare la notizia agli abitanti della pianura raccolti in gran numero nella conca di Valdicastello. La notizia la portavano sui loro volti esterrefatti, nelle parole monche che erano appena capaci di pronunciare e dalle quali chi li incontrava capiva che qualcosa di terribile era accaduto pur senza immaginare le proporzioni. Della verità cominciarono invece a sospettare nelle prime ore del pomeriggio quando le prime squadre di assassini scendendo dalle alture di Sant’Anna, si annunciarono sull’imbocco della vallata a monte del paese.

Li sentivano venir giù precipitosi,accompagnati dal suono di organetti e di canzoni esaltate, e quel ch’è peggio dal rumore di nuovi spari, da nuove grida, che non convinti di aver ben speso quella giornata, i tedeschi la completavano uccidendo quanti incontravano sul sentiero della montagna.

Alcuni che al loro passaggio s’erano nascosti nelle antrosità della roccia vi furono bruciati dentro dal getto del lanciafiamme. Una donna che correva disperata portando in salvo la sua creatura, raggiunta che fu, le strapparono dalle braccia il prezioso fardello, lo scagliarono nella scarpata e lei stessa l’uccisero a colpi di rivoltella nel cranio.

 

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Molti altri furono raggiunti dalle raffiche di mitragliatori mentre fuggivano saltando per le balze della montagna, come capre selvatiche contro le quali si esercitava la bravura del cacciatore. Quando i tedeschi raggiunsero Valdicastello cominciando a rastrellare gli abitanti, il paese era già stretto dall’angoscia; gli abitanti serrati nelle case e nascosti alla meglio; la strada deserta; tutti oppressi da un incubo di morte. Il passaggio dei tedeschi dal paese si chiuse con la discesa del buio sulla valle, dopodiché ottocento uomini erano stati strappati dalle case e condotti via, e un’ultima raffica di mitragliatrice accompagnata da un suono più sguaiato e atroce di organetto, aveva tolto la vita ad altri quattordici infelici, scelti a caso».

 

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Alla fine le vittime di questa strage furono 560, tra cui molti anziani, donne e bambini.


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Quella mattina la furia omicida si scatenò anche contro una bambina di 20 giorni, Anna Pardini: morirà un mese dopo, troppo piccola per sopravvivere alle ferite.


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Nella piccola chiesa di Sant’Anna di Stazzema, il 29 luglio 2007, per la prima volta dopo 63 anni, sono tornate a suonare le note di un organo. Quello preesistente fu distrutto, a scariche di mitra, durante la strage nazista del 12 agosto 1944 e non fu più sostituito. Il dono del nuovo organo è il frutto della sensibilità e dell’impegno di due musicisti tedeschi di Essen, i coniugi Maren e Horst Westermann, i quali, da un lustro, raccolgono fondi in Germania e in Italia organizzando concerti espressamente finalizzati a questo scopo.

 

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29 settembre 1938: la conferenza di Monaco

30 Septembre 2023 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

«Hanno scelto il disonore per evitare la guerra, avranno il disonore e la guerra» Winston Churchill

 

 1938 accordi Monaco

 

Per le dittature in Europa, un modo per uscire dalla crisi del 1929 è quello di preparare la guerra.

La svolta avviene nel 1936. In marzo, il Reich occupa la zona smilitarizzata della Renania, in flagrante violazione delle clausole del trattato di Versailles; in ottobre la Germania e l’Italia firmano un protocollo che preconizza la realizzazione di una grande intesa antibolscevica. Il 1° novembre, Mussolini parla di un «asse Roma Berlino».

1937-manifesto-asse.jpg    tre popoli Vincere

L’intervento delle dittature al fianco dei nazionalisti spagnoli, primo frutto dell’alleanza, fa apparire la guerra di Spagna come la prova generale del futuro conflitto mondiale.

 

annessioni della Germania nazista

Di fronte alle azioni di forza hitleriane, quando tra l’estate del 1936 e la primavera del 1939 quattro stati europei perdono la loro indipendenza, le democrazie rifiutano di intervenire militarmente. L’anno 1937, che sembra dare ragione ai governi pacifisti, non è che un momento di calma. Dal novembre 1937, durante una conferenza segreta (*), Hitler mette al corrente i suoi generali e ministri dei suoi intenti di lungo termine, nel momento che Mussolini dichiara che «l’Italia è stanca di fare da guardia per l’indipendenza dell’Austria»: la via per l’Anschluss è aperta. L’11 marzo 1938, il cancelliere austriaco Schuschnigg è costretto a dare le dimissioni per lasciare il posto al filonazista Seyss-Inquart; il 12, l’Austria viene occupata e l’Anschluss ratificata dalla popolazione dei due paesi. Le democrazie condannano senza intervenire.

Forte dei successi, Hitler si rivolge verso la Cecoslovacchia, stato multinazionale creato nel 1919 dallo smembramento dell’impero austro-ungarico. In un violento discorso il Führer rivendica la riannessione al Reich dei Sudeti, territorio dove risiedono tre milioni di abitanti di origine germanica. La guerra sembra imminente: si mobilizza la Cecoslovacchia, la Francia, l’Italia, l’U.R.S.S. e la Germania richiamano i loro riservisti. All’ultimo momento, sir Chamberlein, primo ministro inglese, ottiene da Hitler il consenso per la convocazione di una conferenza internazionale. Il 29 settembre 1938, Hitler, Mussolini, Daladier, primo ministro francese, e Chamberlain si ritrovano a Monaco senza che l’U.R.S.S. e la Cecoslovacchia, direttamente interessate, siano state invitate. Per evitare la guerra, Daladier e Chamberlain accordano a Hitler tutti i territori rivendicati.

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 A Parigi come a Londra, un grande entusiasmo popolare saluta il ritorno dei negoziatori. Léon Blum, al contrario, ritiene gli accordi di Monaco il prezzo di un «codardo sollievo». La Francia ha perso il prestigio dei suoi alleati orientali.

Quando il primo ministro inglese Chamberlain definì «la pace per i nostri tempi» gli accordi di Monaco,

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Churchill dichiarò: «Hanno scelto il disonore per evitare la guerra, avranno il disonore e la guerra».

L’annessione dei Sudeti non è che il preludio a quello dell’intera Cecoslovacchia. All’indomani della Conferenza di Monaco, inizia lo smembramento dello Stato cecoslovacco: la Polonia e l’Ungheria estendono i loro territori. La Slovacchia di Tiso, alleato del Reich, proclama la sua indipendenza, e la Germania fonda un «protettorato di Boemia-Moravia». La Cecoslovacchia non esiste più.

(*) il resoconto di questa riunione è chiamato “protocollo Hossbach”.

Il “protocollo Hossbach”

Il 5 novembre 1937, Hitler riunì segretamente i suoi pricipali collaboratori. Nel resoconto di questi colloqui, conosciuto come “protocollo Hossbach”, dal nome del colonnello che trascrisse fedelmente il lungo monologo del Führer, sono sviluppati e specificati i temi contenuti nel Mein Kampf del 1924. La Germania doveva conquistare con la forza uno spazio vitale (Le-bensraum) nell’Europa orientale, in modo da assorbire la sua eccedenza demografica; L’obiettivo primario è dunque quello di «abbattere in un sol colpo l’Austria e la Cecoslovacchia» per proteggere il Reich e accrescere le sue risorse. Solo nel 1943, secondo i calcoli del Führer, quando la Germania avrà raggiunto la piena potenza militare, si potrà intraprendere lo scontro ineluttabile con la Francia.

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Le Quattro Giornate di Napoli (27 – 28 – 29- 30 settembre 1943)

26 Septembre 2023 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

Un’insurrezione “spontanea”

La situazione del Mezzogiorno nelle tragiche giornate dell'autunno è la situazione della parte d'Italia su cui la guerra, l'urto fra i due opposti eserciti grava con tutto il suo peso aggiungendo lutti a lutti, rovina a rovina.

Tutto il peso della lotta si concentra nella Campania, e Napoli si trova al centro della formidabile pressione.

Il 12 settembre il colonnello tedesco Scholl assume il« comando assoluto» con un proclama in cui impone lo stato d'assedio, il coprifuoco e la consegna delle armi.

I nazisti a Napoli saccheggiano, distruggono: la loro furia, che travolge soldati sbandati, e cittadini inermi, raggiunge il culmine nell'incendio della Università. Gli edifici vengono invasi e dati alle fiamme, la popolazione rastrellata per le vie è costretta ad assistete in ginocchio all'esecuzione di un marinaio sulla soglia dell'Università; una lunga colonna di deportati viene avviata verso Aversa, quattordici carabinieri, rei d'aver resistito al palazzo delle Poste, vengono fucilati nel corso della tragica marcia. È dall'Università che s'inizia la distruzione metodica della città che secondo gli ordini di Hitler avrebbe dovuto essere ridotta « in fango e cenere»; e la scelta del punto di partenza del piano terroristico non è, probabilmente, casuale: era infatti nello stesso Ateneo che dopo il 2 luglio avevano risuonato più alte le parole della libertà, come nel proclama del l° settembre con cui il rettore magnifico Adolfo Omodeo ricordava ai giovani che i loro maestri erano della generazione del Carso e del Piave e comprendevano il loro affanno». S'inizia poi la sistematica distruzione delle zone industriali, del grande stabilimento ILVA di Bagnoli, mentre tutta la città è messa a sacco.

Napoli è ridotta alla disperazione per le condizioni selvagge in cui è stata ridotta Napoli, priva di cibo e d'acqua, sgombrata a viva forza e distrutta nei quartieri verso il porto (nello spazio di ventiquattro ore, dal 23 al 24 settembre, oltre 200000 persone restarono senza tetto).

Un antefatto delle Quattro Giornate di Napoli: l'abbandono da parte dei nazisti delle caserme e dei depositi militari contenenti ancora piccole quantità di armi e munizioni. Probabilmente i tedeschi ritennero che il suddetto materiale bellico non avesse importanza, né sarebbe stato utilizzato dalla popolazione contro di loro dopo gli infiniti esempi di terrore, dopo la deportazione di ottomila giovani come misura di rappresaglia per il mancato rispetto del bando Scholl.

Nella notte tra il 27 e il 28 settembre la popolazione si alternò in un incessante via vai fra le caserme e le abitazioni, le donne in cerca di viveri e d'indumenti, gli uomini in cerca d'armi e munizioni.

Molte armi erano state già nascoste e conservate gelosamente nei giorni dell'armistizio: ora la determinazione di usarle, di cercare dovunque nuove scorte di esse, di scendere finalmente ,«in istrada» era sbocciata improvvisa come l'unica possibile. Il popolo aveva« fatto la sua scelta», ma in senso opposto a quello richiesto dal proclama fascista. Già nel pomeriggio e nella sera del 27, sollecitati, sembra, dalla falsa notizia dell'arrivo degli Inglesi a Pozzuoli e a Bagnoli, si erano avuti i primi rapidi scontri, le prime scaramucce in più punti della città, episodi in apparenza casuali, certamente non collegati l'uno con l'altro (un gruppo di cittadini che reagisce al saccheggio della Rinascente, un altro gruppo che liberò a piazza Dante dei giovani razziati, due guastatori tedeschi inseguiti a furia di popolo al Vomero), ma altrettanto certamente rivelatori d'uno stato d'animo ormai comune.

All'alba del 28 settembre la rivolta esplose fulminea al Vomero e da Chiaia a piazza Nazionale. Non vi furono collegamenti fra un centro e l'altro dell'incendio, ma l'insurrezione cominciò ad ardere in decine di punti diversi.

Il 28 settembre è la giornata dell'ardimento popolare sfrenato e travolgente: Tra le decine e decine di combattimenti, tanti giovinetti.

Il dodicenne Gennaro Capuozzo funziona da servente a una mitragliatrice in via Santa Teresa presa sotto il fuoco di carri armati tedeschi, finché cade sfracellato, colpito in pieno da una granata sul posto di combattimento.

Filippo Illuminato e Pasquale Formisano, l'uno di tredici, l'altro di diciassette anni corrono incontro a due autoblinde che da via Chiaia cercano d'imboccare via Roma.« Lo scontro fu assai breve, ma impressionante; vi fu chi vide i due intrepidi giovanetti avanzare decisamente sotto le impetuose raffiche di mitragliatrice fino a quando caddero esanimi a pochi passi dalle autoblinde, nell'atto di scagliare ancora una bomba ».

Tutto si è svolto senza un piano, senza collegamenti fra i vari quartieri o gruppi d'insorti anche se talvolta l'azione degli uni ha contribuito al successo di quella degli altri. Esempio maggiore di questa naturale confluenza degli sforzi insurrezionali l'azione svolta da un gruppo di patrioti che a Moiarello di Capodimonte s'impossessano di una batteria da 37/54 e riescono a bloccare per tutta la giornata il tentativo di una colonna di carri Tigre e di autoblinde tedesche di scendere da Capodichino sulla città; probabilmente, se quel tentativo fosse riuscito, la lotta popolare avrebbe avuto un corso diverso o comunque più sfavorevole e cruento.

La rivolta popolare comincia ad organizzarsi, a individuare alcuni obiettivi da conseguire nella ininterrotta ondata del combattimento a viso aperto. Sorge la prima barricata a piazza Nazionale, vengono costituite postazioni d'arme presso il Museo, si chiarisce l'indirizzo principale sorto spontaneamente: impedire che il tedesco attraversi la città verso nord nel corso del ripiegamento e gettare cosi il disordine e il panico nelle sue truppe incalzate da vicino dagli alleati.

Nel corso della battaglia si determina un obiettivo principale: la conquista del « centro» del quartiere costringendo i tedeschi a ripiegare da via Luca Giordano che lo attraversa diagonalmente. L'attacco viene eseguito a squadre e a balzi successivi come in una manovra di guerra regolare. Poi, dopo la furia popolare, anche la furia degli elementi si abbatte sul Vomero: un violento uragano fa sospendere le operazioni e nella notte il nemico perlustra le strade alla caccia degli insorti dileguatisi con le prime ombre.

Il 29 segna il culmine dell'insurrezione napoletana e, mentre prosegue il generoso afflusso dei giovani e degli adolescenti fra le file degli insorti (muore sotto il fuoco d'un'autoblinda il non ancora ventenne Mario Menichini), affiorano i primi elementi organizzativi. Al Vomero si costituisce il Comando partigiano per iniziativa di Antonino Tarsia. In ogni rione emerge nel corso della lotta una figura di «capo-popolo» intorno a cui gravitano i gruppi degli insorti: a Chiaia si fa luce Stefano Fadda, Ezio Murolo in piazza Dante, Aurelio Spoto a Capodimonte. Ovunque gli scontri diventano più intensi e persistenti: nel solo settore Vincenzo Cuoco i patrioti perdono 12 morti e 32 feriti.

A Capodimonte è strenuamente difeso dai partigiani del rione l'unico serbatoio rimasto intatto dall'immane distruzione ed assicurato, in seguito al successo dell'azione, il rifornimento dell'acqua potabile ad alcuni rioni anco­ra per due o tre giorni.

L'episodio risolutivo si verifica infine al Vomero: il comandante del presidio maggiore Sakau chiede di trattare la resa. Accompagnato con bandiera bianca presso il Comando superiore germanico al Corso, lo Scholl, edotto della situazione, è costretto ad ordinare l'evacuazione del campo sportivo e la restituzione dei 47 ostaggi detenutivi, purché i partigiani garantiscano l'immunità al presidio tedesco. È, in sostanza, una capitolazione, la più grave umiliazione per lo Scholl che aveva creduto d'imporre il suo dominio alla città e che ora chiede salva la vita per i suoi soldati a un gruppo di « straccioni» ribelli.

Il 30, pur essendo stata evacuata in massima parte la città dai tedeschi, continuano i combattimenti. Il nemico si lascia dietro la lugubre scia delle rappresaglie: gruppi di guastatori tedeschi, attardatisi nella ritirata, massacrano alcuni giovani in località Trombino. Alla Pigna, nella masseria Pezzalunga, s'ingaggia l'ultimo combattimento delle Quattro Giornate, con violenti corpo a corpo fra i patrioti e i tedeschi, mentre nella città risuonano ancora le fucilate in via Duomo, via Settembrini, piazza San Francesco. Ancora il l° ottobre i tedeschi attuano l'ultima rappresaglia e aprono un violento fuoco sulla città con un gruppo di bombarde piazzate nel bosco di Capodimonte, portando lo sterminio fra la popolazione sino quasi a mezzogiorno: un'ora prima dell'entrata dei primi carri armati angloamericani nella città liberata.

Costretti alla fuga i nazisti sfogano la rabbia per il colpo ricevuto: distruggono le più preziose memorie di quel popolo che non ha piegato la testa sotto i suoi ordini, consumando un’atroce vendetta. A San Paolo Belsito, presso Nola, i tedeschi danno fuoco all' Archivio Storico di Napoli, cioè alla maggior fonte per la storia del Mezzogiorno dal Medioevo in poi.
                                                             
Il bilancio dell'insurrezione napoletana: 152 combattenti caduti; 140 caduti civili, 162 feriti, 19 caduti ignoti (l'elenco delle perdlte continua ad accrescersi anche dopo la liberazione della città: nel pomeriggio del 7 ottobre il palazzo delle Poste, appena riattivato, saltò in aria a causa delle mine lasciatevi dai tedeschi, provocando la morte di molti cittadini.

Sulle barricate s'incontrarono i popolani generosi, le umili donne che offrivano cestini di bombe, come la« Lenuccia» (Maddalena Cerasuolo) e gli esponenti della piccola borghesia meridionale: un Tarsia insegnante a riposo, un Fadda medicochirurgo, un Murolo impiegato.

Parteciparono alla lotta gli studenti del liceo Sannazzaro al Vomero, gli scugnizzi dei quartieri popolari, gli intellettuali come Alfredo Paruta che iniziò il l° ottobre la pubblicazione del giornale « Le barricate»; come gli operai delle fabbriche napoletane. E certo nell'ondata della collera popolare si erano inseriti - qua e là - gli elementi antifascisti consapevoli. Ma l'insurrezione rimase fino all'ultimo un fatto« spontaneo », senza cioè che potessero prevalere in essa gli elementi d'una guida unitaria e anche una chiara coscienza politica dell'accaduto.

Le Quattro Giornate di Napoli saranno sempre presenti nel ricordo di coloro che militeranno nelle file della Resistenza poiché avevano dimostrato la« possibilità» dell'insurrezione cittadina.

«Dopo Napoli la parola d'ordine dell'insurrezione finale acquistò un senso e un valore e fu d'allora la direttiva di marcia per la parte più audace della· Resistenza italiana» (Luigi Longo: dopo l'8 settembre del '43, diede vita alle Brigate Garibaldi. Vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà, stretto collaboratore di Parri, fu tra i principali organizzatori dell'insurrezione nel Nord Italia dell'aprile del '45)

 

Liberamente tratto dalle pagine di  “Storia della Resistenza italiana – 8 settembre 1943 – 25 aprile 1945” di  Roberto Battaglia - Einaudi 1964



Le Quattro Giornate di Napoli in letteratura
da “Il giorno prima della felicità” di Erri De Luca

“Ci eravamo abituati a sentire le frottole della radio, dei giornali: la patria, l'eroica difesa dei confini, l'impero. Tenevamo l'impero, mancava il pane, il caffè ma tenevamo l'impero. Il comandante tedesco Scholl ha fatto uscire un bando, gli uomini tra i 18 e i 33 anni devono consegnarsi in caserma o saranno fucilati. Su trentamila che se ne aspettavano si sono presentati in 120.... I tedeschi e i fascisti erano più incanagliti perché la guerra si metteva male. Lo sbarco di Salerno era riuscito. Facevano saltare le fabbriche, saccheggiavano i magazzini per lasciare vuoto. La città negli ultimi giorni di settembre faceva paura per la fame e il sonno in faccia alle persone.... Bombardavano tutte le notti ...Gli scoppi delle bombe tedesche si confondevano con i bombardamenti americani, la sirena di allarme arrivava dopo che la contraerea si era messa a sparare. Le persone uscivano dai ricoveri dopo l'attacco aereo e non trovavano più la casa. Come venne a piovere cominciò la rivolta. Pare che la città aspettava un segno convenuto, che si chiudeva il cielo. E gli americani smisero di bombardare. Una domenica di fine settembre, sento in bocca a tutti la stessa parola, sputata dallo stesso pensiero: mo' basta. Era un vento, non veniva dal mare ma da dentro la città: mo' basta, mo' basta.. La città cacciava la testa fuori dal sacco. Mo' basta, mo' basta, un tamburo chiamava e uscivano i guaglioni con le armi. Fuori i giovani prendevano le armi dalle caserme e le nascondevano. Un gruppo con uno vestito da carabiniere aveva svuotato l' armeria del forte di Sant'Elmo. I napoletani avevano preso le armi dalle caserme. A volte con le buone, i carabinieri avevano distribuito la loro dotazione per sentimento di fedeltà al re. In altre caserme la paura di una rappresaglia tedesca faceva respingere la richiesta di armi. Allora tornavano con le maniere spicce a requisirle. L'assalto del primo giorno fu contro un camion tedesco che era andato a saccheggiare una fabbrica di scarpe. Negli ultimi giorni di settembre i tedeschi si erano messi a razziare quello che potevano dentro i negozi e pure nelle chiese. Cominciò con un assalto improvvisato a un loro camion carico di scarpe, la prima battaglia. Intanto i tedeschi svaligiavano le chiese, facevano saltare il ponte di San Rocco a Capodimonte, quello della Sanità lo salvammo staccando le cariche esplosive, lo stesso facemmo per l'acquedotto. Volevano lasciare la città distrutta. La rivolta è stata una salvezza. Il centro della rivolta si era piazzato nel liceo Sannazzaro, gli studenti erano stati i primi. Poi uscivano gli uomini nascosti sotto la città. Salivano da sottoterra come una resurrezione. 'Dalle 'ncuollo,' dagli addosso, le strade erano bloccate dalle barricate. Al Vomero tagliavano i platani e li mettevano a fermare il passaggio dei carri armati. Facemmo una barricata a via Foria incastrando una trentina di tram. La città scattava a trappola. Quattro giornate e tre nottate. I carri armati tedeschi riuscirono a passare lo sbarramento di via Foria, scesero a piazza Dante e si avviarono per via Roma. Là sono stati fermati. Giuseppe Capano, di anni 15, si è infilato sotto i cingoli di un carro armato, ha disinnescato una bomba a mano ed è riuscito da dietro prima dell'esplosione. Assunta Arnitrano, anni 47, dal quarto piano ha tirato una lastra di marmo presa da un comò e ha scassato la mitragliatrice del carro armato. Luigi Mottola, 51 anni, operaio delle fogne, ha fatto saltare una bombola di gas spuntando da un tombino sotto la pancia di un carro armato. Uno studente di conservatorio, Ruggero Semeraro, anni 17, aprì il balcone e attaccò a suonare al pianoforte La Marsigliese, quella musica che fa venire ancora più coraggio. Il prete Antonio La Spina, anni 67, sulla barricata davanti al banco di Napoli gridava il salmo 94, quello delle vendette. Il barbiere Santo Scapece, anni 37, tirò un catino di schiuma di sapone sul finestrino di guida di un carro armato che andò a sbattere contro la saracinesca di un fioraio. La mira dei nostri cittadini era diventata infallibile nel giro di tre giorni. Le bottiglie incendiarie facevano il guasto ai carri armati, li accecavano di fiamme. Ero diventato esperto nel farle, ci mettevo dentro qualche scaglia di sapone per fare attaccare meglio il fuoco. Il diesel ce lo avevano dato i pescatori di Mergellina, che non potevano uscire per mare a causa del blocco del golfo e delle mine. Sei persone in mezzo a una folla pronta inventavano la mossa giusta per inguaiare un reparto corazzato del più potente esercito che da solo aveva conquistato mezza Europa. Prima di andarsene i tedeschi avevano lasciato in città bombe a tempo ritardato, una esplose alla posta centrale giorni dopo facendo una strage. Era una loro tecnica, ho saputo che l'hanno fatto anche altrove. Non sapevano perdere. A via Foria le barricate con i tram fermarono per ore i carri armati Tigre. Alla fine riuscirono a passare ma non a via Roma. Dai vicoli a monte scendevano all' assalto uomini e ragazzi a buttare bombe e fuoco in mezzo ai cingoli. Contro quei mucchi di spiritati, i corazzati non potevano niente, si ritirarono. C'era un secondo fronte, i fascisti sparavano dalle case sulla folla insorta. Ci furono battaglie per le scale dei palazzi, sui tetti, fucilazioni sul posto.”

 

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La costituzione del Comitato di Liberazione Nazionale

11 Septembre 2023 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana


La giornata del 9 settembre 1943, mentre la divisione Granatieri era impegnata nella difesa ad oltranza del ponte della Magliana, nella città, abbandonata a se stessa, in mezzo alla ridda delle voci contrastanti, i gruppi politici antifascisti cercavano faticosamente d'orientarsi sulla situazione e di prendere contatto con gli organi del governo Badoglio. Il Comitato delle opposizioni delega a questo scopo nelle prime ore del mattino Bonomi e Ruini, i quali si recano al Viminale e vi apprendono la notizia della fuga del re. Li ha preceduti una missione dell' Associazione combattenti richiedendo la distribuzione di armi per potersi battere a fianco dell'esercito. La richiesta, benché appoggiata dagli emissari del Comitato delle opposizioni è «respinta con un no freddo. Anzi qualcuno aggiunge che non bisogna esasperare gli invasori».

Posto di fronte alla più drammatica delle situazioni, con la sensazione di avere dinnanzi a sé il vuoto più assoluto d'ogni «autorità costituita» il Comitato delle opposizioni reagisce immediatamente; constatando la frattura decisiva determinata dall'8 settembre e traendo da questa constatazione l'indicazione delle sue nuove responsabilità, alle ore 14,30 esso approva la seguente mozione:

“Nel momento in cui il nazismo tenta restaurare in Roma e in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si costituiscono in Comitato di liberazione nazionale, per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza per riconquistare all'Italia il posto che le compete nel consesso delle libere nazioni.”

 L’esordio del CLN

 

12 settembre 1943, il CLN approva il seguente ordine del giorno:

“Il Comitato di liberazione nazionale constata dolorosamente che l'abbandono del loro posto da parte del sovrano e del capo del governo ha intaccato e distrutto la possibilità di resistenza e di lotta da parte dell'esercito e del popolo, e decide per la riscossa e per l'onore italiano”.

 Dopo la nuova situazione creata dalla costituzione del governo fantoccio fascista e dalla dichiarazione di guerra alla Germania da parte del governo Badoglio, la prima discussione che si svolge nell'ambito del CLN è necessariamente quella dei rapporti da stabilirsi col regno del Sud, e verte, né può essere altrimenti, sul problema istituzionale.

 

16 ottobre 1943, il CLN prende una posizione autonoma:

“Il Comitato di liberazione nazionale, di fronte all'estremo tentativo mussoliniano di suscitare dietro la maschera di un sedicente stato repubblicano, gli orrori di una guerra civile, non ha che da riconfermare la sua più recisa e attiva o pposizione ... Di fronte alla situazione creata dal re e da Badoglio, con la formazione del nuovo governo, con gli accordi da esso conclusi con le Nazioni Unite e i propositi da esso manifestati, afferma che la guerra di liberazione – primo compito e necessità suprema della riscossa nazionale - richiede la realizzazione d'una sincera e operante unità spirituale del paese e che questa non può farsi che sotto l'egida dell'attuale governo costituito dal re e da Badoglio; che deve essere promossa la costituzione di un governo straordinario che sia l'espressione di quelle forze politiche le quali hanno costantemente lottato contro la dittatura fascista e fino dal settembre 1939 si sono schierate contro la guerra nazista.

Il C.LN. dichiara che questo governo dovrà:

1)    assumere tutti i poteri costituzionali dello Stato, evitando pero .ogni atteggiamento che possa compromettere la concordia della nazione e pregiudicare la futura decisione popolare;

2)    condurre la guerra di liberazione a fianco delle Nazioni Unite;

3)    convocare il popolo, al cessare delle ostilità, per decidere sulla forma istituzionale dello Stato.”

 In questa fase il CLN centrale è costituito da un gruppo ristretto di dirigenti politici ed è più un organo di collegamento fra i singoli partiti antifascisti che un vero organo collettivo, strettamente legato al movimento che viene dal basso, alla lotta popolare armata (come s'avvia invece a divenire, sia pure in condizioni ambientali diverse, il CLN di Milano).

 

Elaborazione da “Storia della Resistenza italiana” di Roberto Battaglia  Einaudi 1964

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11 settembre 1943: la battaglia di Salerno

11 Septembre 2023 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale

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 Mentre una nuova Italia s'annunciava dalle rovine nel golfo di Salerno la battaglia era giunta al suo momento critico.

La città era terra di nessuno. Le artiglierie piazzate sulle colline l'avevano sotto il tiro e i tedeschi vi facevano frequenti contrattacchi, impegnando battaglia nelle strade.

Gli inglesi entrarono a Salerno nel pomeriggio dell'undici settembre ma senza occuparla stabilmente. Il porto era inservibile e quindi il possesso della città aveva una importanza molto relativa. L'epicentro della battaglia era più a Sud.

A tappe forzate stavano giungendo sul campo gli effettivi di quattro Divisioni che il maresciallo Kesselring faceva affluire dal Napoletano e dalla Calabria. La situazione della V Armata si faceva sempre più critica.

A tre giorni dallo sbarco gli Alleati non erano ancora riusciti a colmare la breccia al centro del loro schieramento e perdevano terreno per effetto dei contrattacchi tedeschi. In questo varco, alla confluenza del fiume Sele col Calore, Kesselring fece il massimo sforzo nel tentativo di tagliare in due la testa di ponte e ricacciare in mare gli Alleati.

L'attacco tedesco cominciò il 12 settembre e continuò per tutta la giornata del 13. Convergendo verso Persano sul Sele, carri armati e fanterie si spinsero avanti obbligando gli americani a ripiegare verso la spiaggia, malgrado l'appoggio dell'aviazione.

La lotta fu particolarmente accanita attorno a un vecchio tabacchificio che i tedeschi trasformarono in trappola per i carri armati americani. Ne fecero entrare parecchi, uno a uno, e li distrussero col lancio delle granate a mano e col tiro dei «panzerfaust».

Il 13 settembre i tedeschi erano ormai vicinissimi al mare. Quella sera gli americani ebbero la sensazione della disfatta e Kesselring credette di avere la vittoria a portata di mano. Clark allora chiese per la notte successiva l'intervento della Divisione aviotrasportata rimasta di riserva in Sicilia.

Clark aveva portato a terra il comando. Per evitare che, com'era accaduto in Sicilia, si sparasse contro i paracadutisti, ordinò che il fuoco d'artiglieria cessasse a mezzanotte meno cinque.

Il 14 settembre cominciò la riscossa alleata. Tutta l'aviazione del Nordafrica e della Sicilia si rovesciò sulla testa di ponte sconvolgendo le retrovie del nemico.

Intanto le navi da guerra inglesi serravano sotto la costa aprendo un fuoco terrificante.

Sotto quelle bordate lo slancio dei tedeschi si spense.

Essi avevano perduto la grande occasione di ributtare in mare l'avversario.

Clark aveva di nuovo in mano la situazione e rilanciava l'offensiva. Le sue Divisioni riconquistavano uno ad uno i paesi che avevano dovuto sgomberare. La battaglia di Salerno era vinta.

 

 

Bibliografia:

Manlio Cancogni in AA.VV - Dal 25 luglio alla Repubblica - ERI 1966

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il regno del Sud

11 Septembre 2023 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #II guerra mondiale


Uno dei punti oscuri del dopo 8 settembre 1943 e dopo la fuga del re Vittorio Emanuele III
(il cui potere era limitato ad appena quattro pro
vince, Lecce, Taranto, Brindisi e Bari, mentre tutto il resto dell'Italia del Sud era sotto l'autorità illimitata dell'AMGOT, Governo militare alleato 'per i territori occupati), fu il fatto che si tardò circa un mese a dichiarare guerra alla Germania. Un ritardo tale da produrre o da aumentare la diffidenza degli stessi alleati, da suscitare persino la sorpresa di Eisenhower. In occasione della firma del lungo armistizio a Malta (29 settembre), fu proprio lui, straniero, a ricordare a Badoglio la sorte che toccava agli italiani ancora in divisa militare, fucilati come partigiani dai tedeschi: «Dal punto di vista alleato la situazione può anche restare com attualmente, ma per difendere questi uomini, nel senso di farli divenire combattenti regolari, sarebbe assai più conveniente per l'Italia dichiarare la guerra». La risposta di Badoglio, di fronte a un argomento così perentorio fu quanto mai elusiva:« Questo punto di vista è già stato considerato, ma si ritiene che in questo momento il governo italiano abbia influenza sopra una frazione troppo piccola del territorio nazionale per poter fare questa dichiarazion. Pretesto, come ognuno vede, ben magro e in contraddizione flagrante col proclama del 13 settembre (nel messaggio trasmesso al popolo italiano il 13 settembre, Vittorio Emanuele III, dopo aver giustificato la propria fuga coll'intento d'evitare «più gravi offese a Roma capitale intangibile della patri annunciò che «tornerà a splendere la luce eterna di Roma e d'Italia ... essendo il vostro re ieri come oggi sempre con voi indissolubilmente legato al destino della nostra patria immortale»).

Eppure la dichiarazione di guerra, anche se cosi' ritardata, anche se strappata a stento (il vecchio sovrano solo l’11 ottobre dopo una lunga discussione si decide a far notificare alla Germania, tramite l'ambasciatore a Madrid, che« l'Italia si considera dalle ore 15 del giorno 13 ottobre in stato di guerra colla Germania»), resta tuttavia il fatto nuovo e positivo che apre una nuova possibilità di vita al governo del Sud, che sblocca sul piano internazionale la situazione. Ad essa segue l'immediato riconoscimento dell'Italia come potenza cobelligerante, la sanzione delle potenze alleate a un governo che prima era si può dire incerto su tutto, anche sulla propria esistenza:

“I governi della Gran Bretagna, degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica riconoscono la posizione del R. Governo italiano cosi com'è stata delineata dal maresciallo Badoglio e accettano la collaborazione attiva della nazione italiana e delle sue forze armate come cobelligeranti nella guerra contro la Germania”.

 

da “Storia della Resistenza italiana” di Roberto Battaglia Einaudi 1964
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I militari italiani internati nei lager nazisti

5 Septembre 2023 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Resistenza italiana

8 settembre 1943 - 8 settembre 2023

«Debbo di necessità limitarmi ad alcuni aspetti essenziali del problema storico rappresentato dalla vicenda dei militari italiani internati nei lager nazisti dopo l'8 settembre 1943. Più che sugli episodi vorrei porre l'accento sulla portata e il significato di questa vicenda.

Desidero anzitutto precisare la dimensione di questo fenomeno dell'internamento: si tratta di una massa considerevole di militari, oltre seicentomila. I dati di fonte tedesca sono imprecisi e oscillano dai seicentomila ai settecentomila. Sono le vittime della catastrofe militare dell'8 settembre. L'armistizio li ha sorpresi nel vasto scacchiere di guerra, nel quale sono presenti le forze armate italiane, dalla Francia alla penisola balcanica, alle basi navali dell'Atlantico e del Baltico, ai comandi tappa della Polonia. Sono stati coinvolti i reparti della madrepatria, specie nell’Italia centrale e settentrionale, che non sono riusciti sottrarsi alla cattura. Si tratta di giovani delle classi più attive e più valide della popolazione. Sono le vittime doloranti del disastro dell'8 settembre. Vi sono tra di loro gli scampati agli eccidi di Cefalonia, Corfù, Spalato, Lero.

I militari italiani internati nei lager nazistiI militari italiani internati nei lager nazisti
I militari italiani internati nei lager nazistiI militari italiani internati nei lager nazisti
momenti di vita degli IMI nei lager nazisti
momenti di vita degli IMI nei lager nazisti
momenti di vita degli IMI nei lager nazisti
momenti di vita degli IMI nei lager nazisti
momenti di vita degli IMI nei lager nazisti

momenti di vita degli IMI nei lager nazisti

Questa massa imponente di militari viene deportata in Germania. Gli ufficiali sono divisi dai soldati; gli ufficiali superiori dagli inferiori. Hitler dispone che gli ufficiali siano trasferiti per punizione in Polonia, nei campi peggiori già abitati dai prigionieri russi. Anche in Germania normalmente sono assegnati agli internati italiani i lager dove erano stati i russi, lager che il Comitato internazionale dello Croce Rossa ha dichiarato inabitabili. A centinaia di migliaia vi erano morti i russi, decimati dalle epidemie e dai patimenti. Le fosse comuni dei russi sono il panorama abituale al di là dei reticolati.

Nella gerarchia dei militari prigionieri dei tedeschi i russi sono all'ultimo posto e gli italiani al penultimo: russi e italiani sono stati privati delle garanzie previste dalle convenzioni internazionali e dell'assistenza del Comitato internazionale della Croce Rossa. Naturalmente i campi degli internati militari italiani non sono paragonabili a quelli più spaventosi, in cui furono concentrati i deporti politici e gli ebrei per esservi massacrati. Ma anche in questi campi finirono alcuni militari.

Mussolini ebbe a dichiarare che si sarebbe dovuto vergognare se dagli internati militari non avesse potuto trarre almeno ventimila volontari per le sue forze armate. Dovette vergognarsi anche in questo caso, perché non riuscì ad arruolare nel ricostituito esercito fascista ventimila internati e dovette ricorrere allo stratagemma di inviare all'addestramento in Germania militari reclutati in Italia. Sottoposti a ripetute richieste di adesione alle formazioni SS, all'esercito tedesco e a quello fascista, oltre il 90 per cento dei militari italiani internati (le statistiche del Ministero della Difesa parlano del 99 per cento) oppose netto rifiuto. Non vi era nessuna comunicazione fra i diversi lager, ma ovunque il comportamento degli internati italiani fu identico.

Lo sconcerto e la preoccupazione per le ripercussioni che l'episodio avrebbe potuto avere in Italia, sono ampiamente testimoniati nel carteggio di Mussolini con Hitler utilizzato dal Deakin per la sua storia della repubblica di Salò.

Mi sembra che su questo rifiuto ci si debba soffermare per analizzarne le motivazioni e per sottolineare che le decisioni furono da ciascuno prese individualmente e sapendo bene a che cosa si andava incontro.

Vorrei citare due sole testimonianze, quella di un soldato, che non aderì, e quella di un ufficiale, che, non avendo aderito inizialmente, aderì in seguito, perché va ricordato, che fino all'ultimo giorno di guerra rimase aperta la possibilità di uscire dal lager aderendo.

Scrive nel suo diario il primo: "Il tedesco con voce stridula grida e l’interprete traduce: 'Chi non è fascista alzi la mano'. Eravamo in duemila, consapevoli che stavamo per decretarci un destino di sofferenze e forse di morte ma tutti, non uno escluso, abbiamo alzato la mano: era una selva di braccia e in quell'istante ci siamo sentiti tutti noi”. L'ufficiale domanda ancora: “Da dove vengono?” “Da tutti i fronti: è la risposta”.

L'ufficiale, che fini per aderire, era un ufficiale di marina. Al rientro in Italia scrisse una relazione, che fu presentata a Mussolini e che ora è conservata nell'Archivio centrale dello Stato a Roma, "Il generale” egli scrive “ci disse alcune parole: aderendo si aveva il trattamento dei soldati e dell'ufficiale tedesco che mangia bene ed è ben pagato. Coloro che non avessero voluto aderire sarebbero stati oramai abbandonati al loro destino e avrebbero pensato la fame e l'inverno polacco a servirli. Questo discorso fatto a gente che, affamata, scarsamente coperta, stava più di un'ora all'aperto a parecchi gradi sotto zero, ebbe un effetto deleterio. Ci prese una tristezza ed uno scoraggiamento infinito; ci si chiedeva di essere dei mercenari, perché non della Patria ci si parlava, ma del soldo e del vitto. Non della fratellanza che sola in tanta sciagura avrebbe dovuto risollevare dal fango l'Italia, ma un italiano minacciava altri italiani di essere abbandonati al loro destino”.

“La fame e l'inverno polacco avrebbero pensato a minare dei fratelli. Anche chi come il sottoscritto era pronto ad aderire e non desiderava altro che ritornare uomo e soldato sentì un moto di ribellione in se stesso. Aderirono su circa 2000 ufficiali 160 circa, di cui la maggior parte malati gravi, invalidi e vecchi. I giovani dicevano apertamente che aveva vinto la fame”.

In questo rifiuto massiccio del fascismo (la percentuale più alta indicata nella relazione citata si deve a particolari condizioni di vita di quel lager) ci sono alcuni motivi, che vanno precisati.

Si tratta di una parte notevole della gioventù italiana, che non ha avuto esperienza politica che quella del fascismo, che ha vissuto fino in fondo di persona la guerra disastrosa, dalla campagna di Grecia alla ritirata di Russia e oltre, ed ha, nella catastrofe, individuato le responsabilità del regime e dei suoi capi e capito che la guerra non poteva non essere che la naturale conclusione del ventennio. Al rifiuto di continuare la guerra a fianco dei nazisti e dei fascisti si arriva attraverso questa amara esperienza dei frutti del fascismo. In tutti è preponderante il rifiuto del fascismo come esperienza storica irrevocabilmente chiusa con il disastro e la vergogna.

Anche se all'inizio non vi è nella massa degli internati una chiara coscienza politica (la fedeltà al governo legittimo è per molti ancora il primo argomento), vi è però in tutti la consapevolezza che una generale risposta negativa al fascismo e al nazismo ha il significato di una rottura con il passato, di una scelta, che ha il valore di un plebiscito politico da parte di una generazione che per la prima volta viene direttamente e individualmente interpellata, sia pure in una grave situazione di costrizione esterna.

Il contatto con le altre vittime del nazismo, specie in Polonia (popolazione civile, ebrei, deportati), dà alla decisione il significato di uno schieramento con il resto dell’Europa, che lotta contro l'occupante. È un ritorno nella grande famiglia dei popoli europei, dalla quale il fascismo aveva cercato di distaccare il popolo italiano. La presenza degli internati·italiani nei lager internazionali ha questo carattere provvidenziale.

La lotta contro l'adesione è lotta anche contro se stessi; la fame, il freddo, la paura delle epidemie, la morte; ma anche la nostalgia di casa, specie dopo la notizia del rientro degli aderenti. Questa lotta va condotta ogni giorno, con decisione perché ogni giorno è possibile farla finita e uscire dal lager sottoscrivendo l'adesione. Si tratta di una lotta attiva, che vede tutti impegnati. Nuclei clandestini sostengono i propri compagni con un'adeguata propaganda e con direttive di azione. Sono composti di antifascisti, giovani e anziani, intellettuali e operai, militari effettivi. Tra coloro che hanno fatto una scelta politica precisa, troviamo in questa attività intensa e rischiosa cattolici e protestanti, accomunati nel giudicare il nazismo come il regno dell'anticristo e per i quali il rifiuto ha valore di impegno religioso. Mi sia concesso in questa sede di citare il nome del rettore Lazzati, che guidò la lotta contro l'adesione nei campi di Sandbostel e di Wietzendorf.

Questa lotta è condotta fino in fondo, in una condizione resa ancora più difficile dal fatto che i nazisti non riconoscono agli italiani la posizione giuridica di prigionieri di guerra e le autorità fasciste impedirono ogni intervento del Comitato internazionale della Croce Rossa, anche quando le autorità tedesche ebbero ceduto alle pressanti e ripetute richieste di Ginevra.

È una lotta affrontata come un combattimento, nel quale si può morire; un combattimento a oltranza, senza alternative morali, in condizioni fisiche sempre più precarie, perché a ogni rifiuto i tedeschi aggravano le condizioni di vita. Il numero dei caduti è di conseguenza elevato e proporzionalmente non ha riscontro se non tra i prigionieri russi. Non si è potuto accertare con esattezza il numero dei caduti. Ai trenta-quarantamila delle statistiche ministeriali vanno purtroppo aggiunti i dispersi, per i quali non raggiunta una documentazione di morte. In un recente viaggio in Polonia alla ricerca di documenti sugli internati militari italiani, trovai numerose relazioni sulla scoperta di fosse comuni con centinaia di massacrati e chiare testimonianze della loro nazionalità italiana. A Treblinka, il famigerato campo di sterminio, l'ultimo convoglio conservato con amore nella stazione (sulla quale campeggiano due scritte: "Non più guerre" – “Non più Treblinka”) ancora chiamato dai polacchi “il treno degli Italiani”. Non è tornato nessuno e non si sa neppure quanti fossero. I carri sono molti.

Dalla Conversazione tenuta da VITTORIO E. GIUNTELLA il 24 gennaio 1975 nell'Aula magna dell'Università Cattolica di Milano.

chi rimane e chi ritorna
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chi rimane e chi ritorna
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chi rimane e chi ritorna

Va anche detto che per molti il rimpatrio alla fine della guerra ha significato solo il venire a morire in Italia. Nel Cimitero militare di Merano sono sepolti internati militari morti in sanatorio negli anni successivi alla liberazione.

Gli episodi di questa resistenza, condotta fino allo stremo delle forze, sono tanti. Vi furono dei malati gravi che rifiutarono il rimpatrio condizionato all'adesione; vi furono degli internati, che rifiutarono il rimpatrio anche come lavoratori fascisti, con il solo obbligo di riconoscere la repubblica fascista; vi furono degli internati che scontarono la loro intransigenza nei campi di sterminio.

Gli internati ebbero notizia della Resistenza in Italia e questo tonificò la loro lotta, dando ad essa il carattere di un combattimento comune, per gli stessi ideali e con la stessa tenacia. Notizie dai lager giunsero alla Resistenza italiana, che riconobbe nella decisione degli internati, lo stesso animo e il medesimo ardore combattivo. Il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia espresse il 27 marzo 1944 la sua solidarietà e la sua ammirazione agli internati che "in una suprema affermazione di dignità e di fierezza hanno voluto negare ogni collaborazione e prestazione al nemico"; “solidarietà e ammirazione", prosegue l'ordine del giorno "che è la solidarietà e l'ammirazione dei liberi e degli onesti di tutto il mondo".

"L'altra faccia della Resistenza", come l'ha chiamata Giorgio Bocca, "la meno nota, non la meno importante” ebbe rilievo anche nel determinare la scelta dello schieramento per migliaia di italiani, padri, madri, spose, figli, parenti di internati nei lager, e anche per coloro vano visto passare nelle stazioni italiane i carri piombati, che li trasportavano in Germania, e avevano assistito alla brutalità delle sentinelle tedesche.

L'internamento è, dunque, parte integrante della Resistenza e si può capire soltanto inquadrandolo in quella che è la generale ribellione degli italiani ai fascisti e ai nazisti».

 

Bibliografia:

1945/1975 ITALIA. Fascismo antifascismo Resistenza rinnovamento.

Conversazioni promosse dal Consiglio regionale lombardo nel trentennale della Liberazione.

Feltrinelli Editore aprile 1975

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