Sito dell'A.N.P.I. di LISSONE - Sezione "Emilio Diligenti"
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Le elezioni del 1924 e il delitto Matteotti

9 Mai 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #il fascismo

In ricordo di Giacomo Matteotti (1885-1924) a 100 anni dalla sua morte per mano fascista. 

Il fascismo, ormai padrone delle piazze e del Governo, non tollerava di essere ancora in minoranza in Parlamento. Si ricorse allora ad una legge liberticida, preparata da Giacomo Acerbo, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. La «Legge Acerbo », attribuendo la maggioranza assoluta alla lista che avrebbe raccolto il venticinque per cento dei voti, garantiva al fascismo mano libera anche alla Camera dei Deputati. Il comportamento preelettorale dei partiti democratici favorì i piani dei fascisti. Questi accolsero nelle loro liste, il cosiddetto «listone», anche esponenti di altri movimenti, indebolendo così gli avversari, mentre per questo ultimo simulacro di competizione elettorale i vari gruppi politici divisero le loro forze. Una parte dei liberali, con alla testa Salandra, entrarono nel listone fascista. Un'altra ala invece, guidata dal vecchio Giolitti (che in un discorso a Dronero aveva rifiutato le offerte di Mussolini) si presentò per conto suo. Vi furono poi altre sei liste liberali, e altre due liste democratiche: quella di Giovanni Amendola fieramente intransigente, e quella di Ivanoe Bonomi, che non fu eletto. Due furono anche le liste socialiste, quella unitaria di Turati e Treves, praticamente guidata da Giacomo Matteotti, e quella massimalista. Matteotti aveva rifiutato di fare blocco con l'ala estrema del socialismo; quella che si era separata a Livorno nel 1921 e che aveva preso il nome di Partito Comunista. Con liste autonome si presentava anche il Partito Popolare di cui Luigi Sturzo aveva lasciato la direzione prima ad un triumvirato, costi­tuito da Rodinò, Gronchi, Spataro e poi ad Alcide De Gasperi.

Ma i fascisti non intendevano affidare la loro sorte alla libera volontà dei cittadini e, durante la campagna elettorale, intimidirono gli avversari con una serie di violenze: la più grave, presagio degli attentati contro il Parlamento, fu commessa nel febbraio a Reggio Emilia dove venne assassinato Antonio Piccinini, tipografo, candidato dei socialisti massimalisti. Così l'opposizione fu imbavagliata ovunque. Si votò il 6 aprile in un clima di intimidazione e i risultati non smentirono le previsioni. Furono eletti 374 candidati del listone, mentre l'opposizione, che si era presentata divisa, ne ottenne solo meno della metà. Era il frutto non di una libera votazione ma di una campagna di sopraffa­zioni e di violenza.

Giacomo Matteotti

Due mesi dopo, alla riapertura della Camera, una voce si levò a protestare contro gli abusi, le illegalità, le violenze, chiedendo la sospensione di quasi tutti i deputati eletti nel «listone». Era la voce di Giacomo Matteotti, e quello fu il suo ultimo discorso in Parlamento e anche l'ultima speranza di opposizione parlamentare. Fra il tumulto e le invettive dei fascisti egli dichiarò: 

«Molti sistemi sono stati impiegati per impedire la libera espressione della volontà popolare. Solo una piccola minoranza di cittadini ha potuto esprimere liberamente il suo voto ... Sentiamo tutto il male che all'Italia apporta il sistema della violenza ... Badate, il soffocamento della libertà conduce ad errori dei quali il popolo ha provato che sa guarire ... La tirannia determina la morte della nazione ... ».

Ma intanto, la tirannia aveva già condannato a morte Matteotti. Il delitto fu poi ricostruito nei particolari. Il 10 giugno del 1924, una automobile si fermò accanto a lui, sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, sulla strada che egli percorreva per andare a Montecitorio. Cinque squa­dristi, guidati da Amerigo Dumini, lo inseguirono lungo la scaletta che scende al fiume, lo stordirono, lo trascinarono in macchina, allontanandosi poi sulla via Flaminia. Si sparse l'allarme: tre giorni dopo si parlò di assassinio, la polizia finse di indagare. Il corpo straziato di Matteotti fu ritrovato due mesi dopo, nella macchia della Quartarella, vicino a Riano, a ventitré chilometri da Roma.

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Quando il delitto venne provato e denunciato, la pietà per l'ucciso si unì alla indignazione verso i colpevoli e i mandanti. L'assassinio non era più l'opera brutale e spavalda dello squadrismo locale, ma un atto della politica del governo fascista. Solo in agosto, dopo la scoperta e il riconoscimento del cadavere, furono celebrati i funerali. L'ultimo viaggio di Matteotti, per volontà del governo, venne circondato dalla prudenza: la salma partì quasi di nascosto da Monterotondo verso Fratta Polesine, vicino a Rovigo; e lassù, nel paese natale dell'ucciso, una grande folla accompagnò Matteotti dal treno al cimitero.

Ma intanto, prima ancora del ritrovamento della salma, si aprì ovunque intorno al regime, un vuoto morale. Caddero le ultime illusioni di normalizzazione e la frattura fra fascisti e antifascisti diventò incolmabile. Ci si trovava di fronte ad un delitto di Stato; un esponente dell'opposizione era stato soppresso dai sostenitori del Capo del Governo. C'era tensione nel Paese e nel Parlamento. Nell'aula di Montecitorio il deputato socialista Gonzales dichiarò: «Denuncio alla Camera e al Paese il fatto atroce e senza precedenti». Il deputato repubblicano Chiesa tuonò di rincalzo: «Il Governo tace, allora è complice!». Mussolini taceva e sembrò in quel momento che il suo regime fosse travolto in un'esecrazione generale.

L'opinione pubblica apparve profondamente scossa e anche quella parte della stampa che aveva dimostrato incertezza e compiacenza finì per condannare i metodi del fascismo. Da ogni parte si levarono voci solenni di condanna e di deplorazione.

Scrisse Antonio Gramsci: 

«La convinzione che il regime fascista sia responsabile dell'assassinio del deputato Giacomo Matteotti, così come è pienamente responsabile di innumerevoli altri delitti non meno atroci e nefandi, è ormai incrollabile in tutti. L'indignazione sollevata da un capo all'altro dell'Italia dal nuovo misfatto è rivolta contro tutto un regime che si regge e si difende con organizzazioni brigantesche».

 

Bibliografia:

Andrea Barbato e Manlio Del Bosco in AA.VV - Dal 25 luglio alla repubblica - ERI 1966

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8 maggio 1945: in Europa la guerra è finita

3 Mai 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #II guerra mondiale

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 C'è una fotografia che ritrae dei bambini intenti a giocare con armi e proiettili sparsi sul terreno, nel cortile di un grande caseggiato. E' finita.

Nel bunker della Cancelleria, a Berlino, Hitler ha ucciso Eva Braun, poi si è sparato. Ha voluto che anche il suo cane prediletto, Blondi, venisse abbattuto. Poi, i camerati hanno bruciato i corpi di Adolf e della moglie.

 

La Repubblica di Salò non ha vissuto che diciotto mesi.

Mussolini non ha molte illusioni; confida al prefetto Nicoletti: «I tedeschi perdono sempre un'ora, una battaglia, un'idea». Il cardinale Schuster, che riceve Mussolini in Arcivescovado, lo descrive come «un uomo senza forza di volontà che muove incontro al suo fato senza reazione».

Alle 16.20 del 28 aprile, a Giulino di Mezzegra, davanti al cancello arrugginito di una villa, cadono fucilati Benito Mussolini e la sua amante Clara Petacci, che ne ha voluto condividere il destino.

Il 7 maggio il Grande Reich firma l'atto di resa senza condizioni: al posto del Führer comanda l'ammiraglio Donitz, eletto suo successore.

A Berlino si contano cinquemila suicidi. Sono arrivati quelli dell'Armata Rossa e non guardano tanto per il sottile, ma dicono le donne che ricordano i terribili bombardamenti: «Meglio un russo sulla pancia che un americano sulla testa».

Il 6 agosto, gli americani sganciano la prima atomica su Hiroshima, tre giorni dopo tocca a Nagasaki: due lampi accecanti, che sviluppano una temperatura di milioni di gradi, diecimila volte più del sole.

Si contano le perdite: l'URSS raggiunge la cifra enorme di 37 milioni, di cui 12 sono i caduti. Più di settantamila città e villaggi risultano distrutti, 30 mila fabbriche sono in rovina, 25 milioni di persone sono senza casa.

Gli americani non arrivano, tra morti e dispersi, a 400 mila; i francesi, tra prima e dopo l'armistizio, 275 mila; gli inglesi 330 mila; l'Italia ha avuto, tra militari e civili, 309.453 morti e 135.070 dispersi. Le perdite tedesche sarebbero state di 2.250.000 caduti e di un milione e mezzo di dispersi. Il Giappone, tra feriti, dispersi e deceduti, circa 1.500.000 uomini; la Polonia oltre un milione di soldati uccisi, e cinque milioni di cittadini, dei quali tre sono ebrei.

L'Italia ha avuto tra militari e civili trecentocinquantamila morti e centotrentamila dispersi, settecento chilometri di ferrovia sono distrutti o danneggiati, ha perso un milione e novecentomila vani e più di diecimila tra ospedali, cinema, alberghi e teatri, più di quarantaduemila chilometri di strade sono impraticabili, 19 mila ponti risultano abbattuti, novecento dieci acquedotti non funzionano più. Mancano 28 mila chilometri di linee elettriche. 
Secondo una stima americana, il costo totale della seconda guerra mondiale sarebbe stato di 1.154.000.000.000 di dollari, di cui 94.000.000.000 pagati da noi. Sono pochi i mutamenti territoriali: la Cecoslovacchia cede all'Unione Sovietica l’Ucraina Sub-carpatica, la Polonia raggiunge l’Oder Neisse, e divide la Prussia orientale con Mosca, alla quale cede una zona di confine, compresa Brest-Litovsk.

Un orologio di Hiroshima,

 

coi numeri quasi cancellati, fuso dal calore, e le lancette che segnano le 8.16.

Un marinaio a Manhattan, sulla Times Square, si butta su un'infermiera della Croce Rossa per baciarla, e celebrare così la sconfitta del Giappone.

Poi, una frase di Georges Bernanos, che vale per tutti i superstiti: «Ci sono tanti morti nella mia vita, ma più morto di tutti è il ragazzo che fui io». 

Finita la guerra: i bambini giocano con i residuati bellici. Il progresso tecnologico non ha reso il conflitto meno feroce. E sembrato anzi che, insieme agli aerei velocissimi, all'atomica, ai missili, al radar sia stata la barbarie la protagonista su tutti i fronti.

Da “la Seconda guerra mondiale – Parlano i protagonisti” di Enzo Biagi – Corriere della Sera 1980

cimitero americano a Omaha Beach (Normandia)


 

cimitero polacco a Montecassino

ATTO DI RESA MILITARE TEDESCA

Firmato a Reims alle ore 2:41 del 7 Maggio 1945

Noi sottoscritti, in virtù dell'autorità conferitaci dall'Alto Comando Tedesco, dichiariamo al Supremo Comando delle Forze di Spedizione Alleate e contemporaneamente all'Alto Comando Sovietico, la resa incondizionata di tutte le forze armate di terra, di mare e dell'aria che a questa data sono sotto il controllo Tedesco.

L'Alto Comando Tedesco invierà immediatamente a tutte le proprie autorità militari terrestri, navali ed aeree e a tutte le forze sotto il suo controllo, l'ordine di cessare ogni operazione militare attualmente in atto a partire dalle 23:01, ora dell'Europa Centrale, dell' 8 Maggio e di rimanere nelle posizioni in cui si trovano in quel momento. Nessuna nave dovrà essere deliberatamente affondata, né dovranno essere arrecati danni agli scafi, alle macchine o alle attrezzature di bordo e nessun aereo dovrà essere volontariamente distrutto o danneggiato.

L'Alto Comando Tedesco provvederà attraverso i propri Comandanti, ad assicurare che venga prontamente eseguito ogni ulteriore ordine impartito dal Comando Supremo delle Forze di Spedizione Alleate e dall'Alto Comando Sovietico.

Questo atto di resa militare potrà essere integrato da successive condizioni di resa globale da imporre alla Germania per conto delle Nazioni Unite.

Nel caso in cui l'Alto Comando Tedesco od ogni altra forza militare sotto il suo controllo non ottemperi a quanto stabilito da questo Atto di Resa, il Comando Supremo delle Forze di Spedizione Alleate e l'Alto Comando Sovietico adotteranno i provvedimenti che riterranno più opportuni.

Firmato a REIMS, in Francia, alle ore 02:41 del 7 Maggio 1945

In rappresentanza dell'Alto Comando Tedesco: Alfred JODL

ALLA PRESENZA DI:

In rappresentanza del Comando Supremo Alleato: Walter Bedell SMITH

In rappresentanza dell'Alto Comando Sovietico: Ivan SOUSLOPAROV

In qualità di Testimone: François SEVEZ (Generale dell'Esercito Francese)
 

 



 
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e per chi si opponeva al fascismo?

30 Avril 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #il fascismo

Chi manifestava un pensiero diverso o si opponeva al regime vi erano pestaggi, olio di ricino da bere, carcere, confino e per alcuni l’eliminazione fisica. 
 
Non mancano i crimini veri e propri. Viene ucciso a colpi di bastone don Luigi Minzoni, il parroco di Argenta. Ed ancora a colpi di bastone anche il deputato liberale Giovanni Amendola e l’intellettuale Piero Gobetti con l’unica differenza è che questi ultimi moriranno alcuni mesi dopo l’aggressione.
Contro i delitti fascisti perpetratisi a danno delle opposizioni durante la campagna elettorale per le elezioni tenutesi nell’aprile del 1924 e che vede la vittoria del listone di cui fa parte il partito fascista, il 30 maggio 1924, alla seduta inaugurale della Camera si alza la voce di Giacomo Matteotti per chiedere l’abolizione del responso delle urne. Pochi giorni dopo, il 10 giugno Matteotti viene rapito e ucciso dai sequestratori fascisti sui sedili posteriori di una macchina su cui è stato caricato con la forza. Il cadavere di Matteotti verrà rinvenuto nei dintorni di Roma il 16 agosto. Ancora morti. Antonio Gramsci, arrestato, morirà per gli stenti e la durezza della pena subito dopo essere stato dimesso dal carcere. Nel 1937 saranno uccisi, a Bagnoles de l’Orne in Francia, i fratelli Carlo e Nello Rosselli.


oppositori-al-regime-eliminati.jpg

Da sinistra: 

GIOVANNI AMENDOLA fondatore dei gruppi della sinistra liberale. Esiliato morirà a Cannes a seguito delle aggressioni fasciste.

PIERO GOBETTI fondatore della rivista "Rivoluzione liberale". Perseguitato e colpito più volte da squadre fasciste morirà a Parigi il 6 febbraio 1926.

ANTONIO GRAMSCI fondatore del PCI. Arrestato nel 1926, condannato a 22 anni e 9 mesi. Ammalatosi in carcere cesserà di vivere il 27 aprile 1937.

 

GIACOMO MATTEOTTI dopo il memorabile discorso alla Camera contro le violenze fasciste nel corso delle elezioni del 1924, fu rapito e assassinato il IO giugno 1924.

 

Don GIOVANNI MINZONI parroco di Argenta (Fe). Perseguitato dai fascisti. Aggredito e ucciso dagli squadristi di Italo Balbo il 23 agosto 1923.

 

CARLO ROSSELLI condannato a 10 anni per attività antifascista evade e emigra a Parigi. Animatore del movimento Giustizia e Libertà. Trucidato in Francia con il fratello Nello il 15 giugno 1937.

 

La Camera dei Deputati, il 28 novembre 1925, fu chiamata a discutere, cioè ad approvare, un progetto di legge, il quale puniva con la perdita della cittadinanza chi " commettesse o concorresse a commettere, all'estero, fatti diretti a disturbare l’ordine pubblico nel Regno, o a, diminuzione del buon nome o del prestigio dell'Italia, anche se il fatto non costituiva reato." 

Secondo la stampa fascista, ai fuoriusciti italiani oppositori del regime doveva essere riservato un trattamento speciale. Di seguito alcuni articoli di stampa tratti da alcuni giornali.

Il vice-segretario del Partito fascista, Melchiorri, nel Popolo d'Italia del 20 settembre 1926, proclamò che:

"i fuorusciti dovevano essere rintracciati dovunque si trovavano, e la vita doveva essere resa loro impossibile" (nel gergo fascista queste parole significavano che dovevano essere uccisi; mentre "rendere la vita difficile" significava bastonare di santa ragione finché il bastonato non avesse messo giudizio); un giorno o l'altro, qualche fascista potrebbe andare a cercarli nei loro covi di Parigi."

 

Lo stesso Melchiorri nel Popolo di Roma del 28 settembre 1926, diede alle stampe un'altra bella pensata:

"Ogni segretario comunale dovrebbe affiggere una lista di tutti coloro che sono andati all'estero per qualsiasi ragione, con gli indirizzi delle loro famiglie nella città. Forse il pericolo di rappresaglie sulle famiglie sconsiglierà quei bastardi da ulteriori attività contro la patria."

 

E il settimanale di Milano Il Torchio del 19 giugno 1927, pubblicò un appello veramente eroico:

“Avanti, fascisti, che amate il Duce con dedizione appassionata: attraversate le frontiere. Attraversatele a decine, a centinaia, a migliaia. Percorrete tutte le strade del mondo. Perquisite ogni paese. Affondate ovunque le punte delle vostre baionette. Le vostre armi saranno sporcate di fango, di veleno, di sangue. Nei sacri nomi d'Italia e del Duce, colpite, senza pietà, senza tregua, senza rimorsi. Date la caccia una volta per sempre ai falsi italiani, ai finti italiani, agli ex-italiani. Debbono essere abbattuti ovunque si trovano. Lo sterminio deve essere inesorabile ed assoluto. Non deve sopravvivere neanche la loro memoria. Solo così l'Italia sarà liberata da un incubo permanente; solo così essere salvata dall'abisso. La salvezza del Duce lo esige. Avanti, fascisti, uccidete!”

 

(da “Memorie di un fuoriuscito” di Gaetano Salvemini)

 

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Un intellettuale perseguitato dal fascismo: Antonio Gramsci

30 Avril 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

Dalla Sardegna a Torino   

 

La formazione politica e culturale

    

Dall’«Ordine Nuovo» alla fondazione dell’ ”Unità”

     

Deputato, l’arresto, il processo e il carcere

   

Le “Lettere dal carcere"

 

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Bibliografia:

 

- Antonio Gramsci Lettere dal carcere” Volume primo Edizioni L’Unità 1988

 

- Armando Saitta “Dal fascismo alla resistenza La Nuova Italia Firenze 1965

 

- Antonio Gramsci “Lettere dal carcere Giulio Einaudi Torino 1971

 

- Giuseppe Fiori “Processo Gramsci” Edizioni L’Unità 1994

 

- Antonio Gramsci “Socialismo e Fascismo” Giulio Einaudi Torino 1978

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Dalla Sardegna a Torino

Antonio-Gramsci.jpgQuarto dei sette figli di Francesco Gramsci e Giuseppina Marcias, Antonio - Nino, come è chiamato in famiglia - nasce nel paese di Ales, in provincia di Cagliari, il 22 gennaio del 1891. Il padre, che è figlio di un colonnello della gendarmeria borbonica, di origine albanese, fa il procuratore distrettuale a Ghilarza. In questo centro, situato su un altipiano tra il Gennargentu, i monti del Marghine e la catena di Montiferru, Antonio vivrà la sua fanciullezza. Anche la madre è della stessa condizione sociale del padre, borghesia di provincia non agiata ma neppure misera. È una donna colta, sensibilissima, che vive per i figli. Lo sviluppo del bambino è gravemente compromesso da una caduta a quattro anni: la schiena andrà lentamente incurvandosi e invano le cure sanitarie cercano di arrestare la deformazione. Non per questo, però, Antonio cresce gracile o malaticcio: si mischia impetuosamente ai giochi dei coetanei, figli di contadini e pastori, ha un amore per la natura di cui troviamo gli echi più delicati e tenaci nella cattività; nelle sue lettere egli ricorderà anche una sorta di ossessione di schiettezza nei rapporti umani che non escludeva il riserbo («orso» si definirà). Ha una passione inesauribile per i libri. A sette anni si entusiasma di Robinson Crusoé: «Non uscivo di casa mia senza avere in tasca dei chicchi di grano e dei fiammiferi avvolti in pezzettini di tela cerata, per il caso che potessi essere sbattuto in un'isola deserta e abbandonato ai miei soli mezzi».

Nel 1897 il padre, in seguito a una triste vicenda giudiziaria che lo travolge, è sospeso dall'impiego e Antonio, come i fratelli, dovrà presto cercare un lavoro qualsiasi. Poco più che undicenne sbriga faccende («me la passavo a spostare registri che pesavano più di me ... ») in un ufficio, e deve interrompere gli studi appena conseguita la licenza elementare, per due anni, anni inquieti. «Che cosa mi ha salvato - rammenterà - dal diventare completamente un cencio inamidato? L'istinto della ribellione che da bambino era contro i ricchi, perché non potevo andare a studiare, io che avevo preso dieci in tutte le materie alla scuola elementare, mentre andavano il figlio del macellaio, del farmacista, del negoziante in tessuti ... » Poi, grazie all'aiuto della madre e delle sorelle, frequenta il ginnasio a Santu Lussurgiu, vivendo in casa di una contadina. Nel 1908 si iscrive al Liceo classico di Cagliari, alloggiato col fratello più grande, Gennaro, che è impiegato in una fabbrica di ghiaccio e funge da cassiere della locale Camera del Lavoro. Antonio fa il suo garzonato studentesco senza brillare particolarmente; rivela una propensione per le scienze esatte, legge di tutto con accresciuta avidità. Anche se da «triplice e quadruplice provinciale», il movimento culturale a cui s'accosta è quello vociano e salveminiano; segue la «Critica» di Croce e qualche giornale socialista che in casa porta il fratello. Antonio è autonomista, la sua prima ribellione si esprime nel grido: «Al mare i continentali!» Sarà lui invece a traversare il mare, nell'autunno del 1911: ha conseguito la maturità liceale alla fine di un anno di difficoltà e di stenti ed è riuscito a superare un esame supplementare per il conferimento di una borsa di studio di 70 lire mensili che gli apre le porte dell'Università torinese. Si iscrive alla facoltà di lettere, vive in una stanzetta sulle rive della Dora, dove «la nebbia gelata mi distruggeva».

 

La formazione politica e culturale

Torino, dal 1912 al 1922: è il decennio decisivo nella formazione politica e culturale di Antonio Gramsci. La città più industriale e più operaia d'Italia, la città dell'automobile, determina largamente quella formazione facendo del ventenne studente sardo un militante e poi un dirigente socialista. Egli vede nell'anteguerra i primi grandi scioperi dei metallurgici, entra nelle file della gioventù socialista nel 1913, collabora al foglio della sezione locale, «Il grido del popolo», nel 1916 è assunto alla redazione torinese dell'«Avanti!», come cronista e critico teatrale. Le sue note di costume (Sotto la Mole) e le sue cronache teatrali, lo segnalano come una personalità nuova in un ambito che va al di là dei lettori abituali del quotidiano socialista. Ma è il numero unico redatto per conto della federazione giovanile piemontese, dal titolo significativo de “La città futura”, nel febbraio del 1917, a darci il primo segno morale e culturale di questa personalità, espressione della nuova generazione socialista intellettuale.

Fervore idealistico, crocianesimo per ribellione al positivismo della generazione socialista precedente e come modello del saper vivere senza religione rivelata ma con la stessa tensione etica; passione di giustizia sociale unita a un rinnovamento del costume: questi i valori che Gramsci introduce nel suo modo nuovo di fare propaganda tra gli operai non appena, nello stesso anno, passa a dirigere il «Grido del popolo». Il suo primo accostarsi a Marx passa per una riscoperta di Hegel e della filosofia classica tedesca. Essere volontari significa intanto per lui avere fede nella spontaneità che alimenterà l'organizzazione, intrattenere un rapporto con la classe operaia che non sia più di tutela paternalistica ma di diretta solidarietà. «Il proletariato non vuole predicatori di esteriorità, freddi alchimisti di parolette; vuole comprensione, intelligenza e simpatia piena d'amore», scrive in polemica con il riformista Claudio Treves dopo la sommossa operaia che sconvolge la città nell'agosto del 1917, appena divelte le barricate sulle quali sono caduti, invocando la pace e la rivoluzione, cinquanta proletari torinesi.

La rivoluzione è scoppiata ad Oriente e Gramsci saluta l'Ottobre appunto come la vittoria della volontà degli uomini sulle forze meccaniche della storia, come unità di economia e politica, come atto di libertà e di creazione. Di qui l'esaltazione delle masse e dei loro dirigenti «consapevoli» come Lenin, di qui il suo interesse alla forma del «soviet», l'istituto di democrazia che la rivoluzione ha espresso e che Gramsci studia nella sua dimensione «universale». Finita la guerra, il giovane, che non si è laureato, abbandona l'Università per scegliere definitivamente la strada della milizia rivoluzionaria.

Il l° maggio del 1919 fonda con altri tre coetanei, Angelo Tasca, Umberto Terracini e Palmiro Togliatti, a cui si è legato di amicizia negli anni precedenti, una rivista settimanale, l'«Ordine Nuovo», rassegna di cultura socialista. Nel clima incandescente del primo dopoguerra, questa rivista di giovani (Gramsci ha ventotto anni, come Tasca, Togliatti ventisei, Terracini ventiquattro) è, in un primo tempo, soltanto una delle tante in cui si esprime l'ansia di rinnovamento sociale e culturale che accompagna la crisi della società italiana uscita dalla guerra, in un'Europa in cui il mito del bolscevismo è operante sia per le masse operaie che per le fresche coscienze della nuova intellighenzia.

Dopo qualche mese, però, per impulso diretto di Gramsci, l'«Ordine Nuovo» passa dallo stadio di rassegna culturale a quello di palestra, di strumento di discussione e di ricerca per una grande idea-forza, quella dei Consigli di fabbrica. È l'idea che gli «ordinovisti» ricavano da tutta l'esperienza russa ed europea dei Consigli, e di consimilari organismi operai autonomi, e trasferiscono nel vivo del «laboratorio sociale» dei grandi stabilimenti metallurgici torinesi. Si tengono riunioni con i lavoratori nella stanza in cui ha sede la rivista: Gramsci discute con loro sulla possibile trasformazione della Commissione interna in un sistema di commissari di reparto, eletti da tutta la maestranza che costituiranno il Consiglio di fabbrica. «L'orso» non è diventato un tribuno, non lo diventerà mai, non ha nulla del cliché tradizionale del capo socialista: preferisce alle grandi assemblee e ai comizi questi contatti personali e in essi è meticoloso, curioso di ogni particolare, tanto generoso quanto è ironico, addirittura sarcastico, con i suoi collaboratori da cui esige sempre la massima modestia e precisione.

Il movimento dei Consigli di fabbrica attecchisce a Torino, si realizza in decine di stabilimenti, dalla Fiat alla Lancia. Nel giro di pochi mesi, verso l'autunno del 1919, più di centocinquantamila operai sono organizzati nel Consigli, nonostante lo scetticismo della federazione sindacale metallurgica di orientamento riformista. Allo sviluppo pratico corrisponde un'elaborazione teorica di Gramsci, accentrata su una particolare sottolineatura della lezione leninista. Egli opera intensamente perché sorgano «nuove creazioni rivoluzionarie», che affondino le loro radici nel momento della produzione, che partano dal luogo di lavoro e formino istituti proletari, primi pilastri di una macchina statale nuova, dello Stato operaio. Il lavoratore è da lui considerato prima come produttore che come salariato.  

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"VENTO DEL NORD"

30 Avril 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

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Di seguito un articolo, firmato da Pietro Nenni, sull’AVANTI! - Quotidiano del Partito Socialista, di venerdì 27 aprile 1945.

“Vento del Nord.

Vento di liberazione contro il nemico di fuori e contro quelli di dentro”.

 

VENTO DEL NORD

Quando parlammo per la prima volta del vento del Nord, i pavidi, che si trovano sempre al di qua del loro tempo, alzarono la testa un poco sgomenti. Che voleva dire? Era un annuncio di guerra civile? Era un incitamento per una notte di San Bartolomeo? Era un appello al bolscevismo?

Era semplicemente un atto di fiducia nelle popolazioni che per essere state più lungamente sotto la dominazione nazifascista, dovevano essere all’avanguardia nella riscossa. Era il riconoscimento delle virtù civiche del nostro popolo, tanto più pronte ad esplodere quanto più lunga ed ermetica sia stata la compressione. Era anche un implicito omaggio alle forze organizzate del lavoro ed alla loro disciplina rivoluzionaria.

Ed ecco il vento del Nord soffia sulla penisola, solleva i cuori, colloca l’Italia in una posizione di avanguardia.

Nelle ultime 48 ore le notizie dell’insurrezione e quelle della guerra si sono succedute con un ritmo vertiginoso. La guerra da Mantova dilagava verso Brescia e Verona, raggiunte e superate nel pomeriggio di ieri. L’insurrezione guadagnava Milano e da Torino si propagava a Genova.

Nell’ora in cui scriviamo tutta l’Alta Italia al di qua dell’Adige, è insorta dietro la guida dei partigiani. A Milano a Torino a Genova i Comitati di Liberazione hanno assunto il potere imponendo la resa dei tedeschi e incalzando le brigate nere fasciste in vittoriosi combattimenti di strada.

Sappiamo il prezzo della riscossa. A Bologna ha nome Giuseppe Bentivogli. Quali nomi porterà la testimonianza del sangue a Torino e Milano? La mano ci trema nel dare un dettaglio dell’insurrezione milanese. Ieri mattina alle cinque, secondo una segnalazione radiotelegrafica, il posto di lotta e di comando di Alessandro Pertini e dell’Esecutivo del nostro partito era circondato dai tedeschi e in grave pericolo. Nessuna notizia è più giunta in serata per dissipare la nostra inquietudine o per confermarla. Ma sappiamo, ahimè!, che ogni battaglia ha le sue vittime e verso di esse, oscure od illustri, sale la nostra riconoscenza.

Perché gli insorti del Nord hanno veramente, nelle ultime quarantotto ore, salvato l’Italia. Mentre a San Francisco, assente il nostro paese, si affrontano i problemi della pace, essi hanno fatto dell’ottima politica estera, facendo della buona politica interna, mostrando cioè che l’Italia antifascista e democratica non è il vaniloquio di pochi illusi o di pochi credenti, ma una forza reale con alla sua base la volontà l’energia il coraggio del popolo.

In verità il vento del Nord annuncia altre mete ancora oltre l’insurrezione nazionale contro i nazifascisti. Gli uomini che per diciotto mesi hanno cospirato nelle città, che per due lunghi inverni hanno dormito sulle montagne stringendo fra le mani un fucile, che escono dalle prigioni o tornano dai campi di concentramento, questi uomini reclamano, e all’occorrenza sono pronti ad imporre, non una rivoluzione di parole ma di cose. Per essi il culto della libertà non è una dilettantesca esasperazione dell’«io» demiurgico, ma sentimento di giustizia e di eguaglianza per sé e per tutti. Alla democrazia essi tendono non attraverso il diritto formale di vita, ma attraverso il diritto sostanziale dell’autogoverno e del controllo popolare. Non si appagheranno quindi di promesse, né di mezze misure. La rapidità stessa e l’implacabile rigore delle loro rappresaglie sono di per sé sole un indice della loro maturità, perché se la salvezza nel paese è nella riconciliazione dei suoi figli, alla riconciliazione si va non attraverso l’indulgenza e la clemenza, ma l’implacabile severità contro i responsabili della dittatura fascista e della guerra.

In codesta primavera della patria che consente tutte le speranze, c’è per noi un solo punto oscuro; si tratta di sapere se gli uomini che qui a Roma scotevano sgomenti il capo all’annuncio del vento del Nord, che vedevano sorgere dal passato l’ombra di Marat o quella di Lenin se qualcuno osava parlare di comitato di salute pubblica, che trovavano empio e demagogico il nostro grido: «tutto il potere ai Comitati di Liberazione», si tratta di sapere se questi uomini intenderanno o no la voce del Nord e sapranno adeguarsi ai tempi. Ad essi noi ripetiamo quello che ieri, da queste stesse colonne, dicevamo agli Alleati – Abbiate fiducia nel popolo, secondatene le aspirazioni, scuotete dalle ossa il torpore che vi stagna, rompete col passato, non fatevi trascinare, dirigete.

A queste condizioni oggi è finalmente possibile risollevare la nazione a dignità di vita nuova, nella concordia del più gran numero di cittadini.

Vento del Nord.

Vento di liberazione contro il nemico di fuori e contro quelli di dentro.

                                                                                    Pietro Nenni

1945 27 aprile Avanti Vento del Nord p


 


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erano le 16,30 del 28 aprile 1945 ...

28 Avril 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #il fascismo

Il 27 aprile 1945. Mussolini venne catturato a Dongo (Como). Aveva abbandonato Milano nel tardo pomeriggio del 25 aprile e, con gli ultimi fedelissimi e il codazzo di gerarchi in fuga, aveva raggiunto Como sotto la vincolante custodia di una trentina di SS.

Da Menaggio nella notte tra il 26 e il 27 aprile, si accodò con i suoi gerarchi ad una autocolonna della Luftwaffe che puntava su Chiavenna per raggiungere Merano attraverso il passo dello Stelvio.

La mattina seguente la colonna venne bloccata dai partigiani in quel di Musso, abbandonò il suo seguito, indossò un cappotto dell’aviazione tedesca e cercò di superare i controlli partigiani nascondendosi in un camion tedesco. Riconosciuto, venne fermato dai partigiani della 52ª brigata Garibaldi.

Il 28 aprile 1945 Walter Audisio ufficiale addetto al Comando generale del CVL, col nome di battaglia di "Colonnello Valerio", ricevette l’ordine di recarsi a Dongo, per eseguire la sentenza capitale decretata dal CVL nei confronti di Benito Mussolini, sulla base del decreto emesso, il 25 aprile 1945, dal CLN Alta Italia. L’art. 5 del decreto diceva: " I membri del governo fascista e i gerarchi del fascismo colpevoli di avere contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, d’aver distrutto le libertà popolari, creato il fascismo, compromessa e tradita la sorte del Paese e d’averlo condotto all’attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e, nei casi meno gravi, con l’ergastolo".


Sull’esecuzione del capo del fascismo a Giulino di Mezzegra, il Colonnello Valerio ebbe a raccontare:

"… cominciai a leggere il testo della sentenza di condanna a morte del criminale di guerra Benito Mussolini: Per ordine del Comando generale del Corpo volontari della Libertà, sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano. ..”

 

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La morte di Antonio Gramsci

26 Avril 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #Resistenza italiana

Dopo undici anni di detenzione nelle carceri fasciste, Gramsci si spegne nella clinica Quisisana, all’alba del 27 aprile 1937. Ha appena compiuto quarantasei anni. Quarto di sette figli di Francesco Gramsci e Giuseppina Marcias, Antonio - Nino, come era chiamato in famiglia – era nato ad Ales, in provincia di Cagliari, il 22 gennaio del 1891.

Quando muore è in corso la guerra di Spagna. Una batteria di artiglieri garibaldini porta il suo nome.

Negli scritti che gli vengono dedicati sulla stampa comunista viene sempre definito capo del partito.

Nel parco di cultura Gor'kij a Mosca, campeggia il ritratto di Gramsci e il suo figliolo minore, Giuliano (che il padre non ha mai potuto vedere), allora sui dieci anni, lo scopre con sorpresa e vuole sapere dalla madre Giulia «tutto ciò che si riferisce» alla sua vita e alla sua sorte.

La fama internazionale, la solidarietà antifascista, non leniscono molto l’isolamento di Gramsci, che non è stato meno profondo negli ultimi anni di semiprigionia, di vigilanza poliziesca strettissima, immutata, anzi rafforzatasi nel passaggio dalla clinica di Formia a quella Quisisana di Roma.

Il malato si trova, fino alla vigilia della morte, in «libertà condizionale», piantonato e sorvegliato. Le sue condizioni di salute sono gravi anche se non ci si aspetta che possano da un momento all'altro diventare gravissime.

Gramsci era stato trasferito alla clinica di Roma (accompagnato da un commissario di PS e da due agenti) il 23 agosto 1935. Ciò è avvenuto soltanto perché, dopo reiterati solleciti della cognata Tatiana e il certificato medico del professor Puricelli, appariva urgente sottoporre il malato ad un intervento chirurgico di ernia. Era stata scelta la clinica Quisisana di Roma, «presi gli ordini da S.E. il capo del governo» e dopo attenti sopralluoghi, perché, secondo il capo della polizia «si presta(va) a una più efficace vigilanza».

Oltre alle visite assidue del fratello Carlo, e a quelle periodiche di Sraffa (Piero Sraffa, antifascista torinese, vicino ai comunisti, quelli dell'«Ordine Nuovo», che ha conosciuto nella prima giovinezza, insegna a Cambridge ed è un economista di grande valore), egli è assistito senza posa dalla cognata Tatiana. La moglie, Giulia Schucht, è stata lunghi anni ammalata, ricoverata in una clinica per malattie nervose. A Gramsci é stata taciuta la gravità dello stato di salute della sua compagna.

Giulia non verrà a trovarlo, probabilmente perché non è in grado di affrontare tale viaggio, e sarà un nuovo motivo di dolore per il prigioniero (che indirizza in questo ultimo periodo frequenti, affettuosissime lettere ai due figli). La sua esistenza nella clinica Quisisana è meno tormentata di quella passata a Formia ma le forze declinano di mese in mese.

Durante il 1936, Gramsci comincia a progettare di trasferirsi in Sardegna non appena finirà il periodo della «libertà vigilata », cioè nell’aprile del 1937.

La sera del 25 aprile 1937 sopravviene improvvisamente un'emorragia cerebrale. Neppure in questa estrema circostanza è assistito adeguatamente dal punto di vista clinico (mentre le suore della clinica gli mandano un sacerdote).

Gramsci si spegne all'alba del 27 aprile, alle 4,10.

La cognata è al suo capezzale: poco dopo arriverà il fratello Carlo. Soltanto questi due congiunti possono vedere la salma, «circondati da una folla di agenti e di funzionari del Ministero degli Interni», ricorda Tatiana. Un fonogramma del questore di Roma, il 28 aprile, dà conto dei funerali: «Comunico che questa sera, alle 19,30, ha avuto luogo il trasporto della salma noto Gramsci Antonio seguito soltanto dai familiari. Il carro ha proceduto al trotto dalla clinica al Verano dove la salma è stata posta in deposito in attesa di essere cremata».

Il cadavere sarà cremato il 5 maggio. I giornali italiani dànno la notizia della morte di Gramsci in poche righe attraverso un dispaccio dell’agenzia Stefani: «É morto nella clinica privata Quisisana di Roma, dove era ricoverato da molto tempo, l'ex deputato comunista Gramsci». L’eco all’estero, sui giornali democratici in Europa e in America, nella stampa comunista e antifascista, sarà grandissima.

Il 22 maggio 1937 (18 giorni prima di venire ucciso con il fratello Nello), Carlo Rosselli, in una commemorazione alla sala Huyghens di Parigi, ricordava Gramsci come uomo «intimo, riservato, razionale, severo, nemico dei sensitivi e delle cose facili, fedele alla classe operaia nella buona come nella cattiva sorte, agonizzante in una cella, con tutto un esercito di poliziotti che cercano di sottrarlo al ricordo e all’amore di un popolo ...». Per Gramsci «conta(va) solo la coerenza e la fedeltà a un ideale, a una causa, che vive di se stessa, indipendentemente da ogni carriera e da ogni interesse personale».

La notizia del sacrificio e l'esaltazione della figura del capo comunista vengono divulgate sulle onde dell'etere da una trasmissione di «Radio Milano», cioè dall’emittente che i comunisti hanno in Spagna e che in Italia viene ascoltata tutte le sere, verso le ore ventitre, da numerossimi radioascoltatori nostante divenga di mese in mese più intensa la caccia della polizia a quanti captano la voce della Spagna. Sulla base dell'intercettazione fatta dalla stazione di Imperia dei carabinieri apprendiamo che la trasmissione speciale in onore di Gramsci, con la partecipazione di oratori comunisti, socialisti e di “Giustizia e Libertà” italiani, ebbe luogo il 22 maggio 1937. In essa si descrive la vita del rivoluzionario, si cita il “processone” del 1928, si dà conto della solidarietà dei combattenti spagnoli per la libertà, si ricordano gli altri prigionieri politici del fascismo e si conclude: «Il nome di Antonio Gramsci sta scritto a lettere d'oro sulla bandiera dei lavoratori italiani».

Bibliografia:
Paolo Spriano - Storia del Partito comunista italiano – Einaudi 1970
La morte di Antonio Gramsci
La morte di Antonio Gramsci
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Senza memoria non c'è futuro

26 Avril 2024 , Rédigé par Renato Publié dans #Festa della Liberazione

"Senza memoria non c'è futuro" ha detto il Presidente della Repubblica ieri 25 aprile 2024 a Civitella in Val di Chiana a "ottanta anni dalla terribile e disumana strage nazifascista perpetrata sull'inerme  popolazione"  che fece 244 vittime. 

25 aprile 2024

25 aprile 2024

Alcuni momenti della celebrazione a Lissone 

 

fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli
fotografie di Gianni Redaelli

fotografie di Gianni Redaelli

Intervento del prof. Giovanni Missaglia nella celebrazione della Festa di Liberazione dal nazifascismo

La Costituzione è antifascista dall’inizio alla fine

 Il Presidente della Repubblica invita a "una doverosa unità popolare sull'antifascismo

note di Bella Ciao

note di Bella Ciao

Il 25 aprile 1945 a Lissone

CLN e Giunta municipale

CLN e Giunta municipale

CLN Lissonese

CLN Lissonese

Angelo Genola primo Sindaco di Lissone nominato dal CLN

Angelo Genola primo Sindaco di Lissone nominato dal CLN

Appello del Sindaco ai cittadini Lissonesi

Appello del Sindaco ai cittadini Lissonesi

Gli Alleati a Lissone il 29 aprile 1945Gli Alleati a Lissone il 29 aprile 1945

Gli Alleati a Lissone il 29 aprile 1945

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Mostra Schiavi di Hitler Internati Militari italiani Altra Resistenza

13 Avril 2024 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Memoria e dell'Impegno

inaugurazione 20 aprile 2024 Palazzo Terragni  Lissone

inaugurazione 20 aprile 2024 Palazzo Terragni Lissone

Dopo l'8 settembre del 1943, data dell'armistizio, oltre 600 mila soldati italiani vengono facilmente catturati dalle truppe tedesche. Tuttavia, non mancano gli episodi di resistenza, come, ad esempio, la battaglia che si combatté a Cefalonia.

Subito dopo la cattura, ai soldati italiani viene posta l'alternativa tra collaborare con i tedeschi o essere deportati in Germania. Secondo gli storici, il 70% dei prigionieri rifiutò ogni forma di collaborazione. Stipati sui treni merci, i militari italiani viaggiarono verso i campi di prigionia nazisti.

Catturati come prigionieri di guerra, i militari italiani vengono successivamente classificati come Internati Militari Italiani: IMI. Fu questo un modo per sottrarli al controllo della Croce Rossa internazionale e avviarli con più facilità al lavoro coatto.

Tra i primi provvedimenti che i nazisti presero nei confronti degli IMI ci fu quello di dividere i soldati semplici dagli ufficiali. Gli ufficiali furono rinchiusi in appositi campi di prigionia mentre i soldati furono destinati ai campi di lavoro obbligatorio.

I militari italiani vennero impiegati in tutti i diversi settori dell'economia di guerra nazista: dal lavoro nei campi alle fabbriche di armi. Le condizioni di vita e di lavoro era molto dure. Gli IMI lavoravano 12 ore al giorno e ricevevano una scarsissima razione di cibo.

Spesso gli IMI furono accusati di sabotaggio e per questo severamente puniti. Addormentarsi per la stanchezza sul posto di lavoro, ad esempio, veniva sanzionato con diverse settimane di detenzione nei terribili campi di punizione.

Per tutto il periodo della loro detenzione, gli ufficiali italiani prigionieri in Germania furono sottoposti alla continua richiesta di collaborazione. Ma la maggior parte dei militari internati, o per spirito di fedeltà al Re o per odio nei confronti dei nazisti, rifiutò di giurare fedeltà a Hitler e Mussolini

Nell'estate del 1944 gli IMI furono trasformati d'imperio in liberi lavoratori civili. Molti militari italiani si opposero a questa imposizione. Un rifiuto che sarà pagato con la detenzione nei campi di rieducazione.

Nella primavera del 1945, con l'avanza dell'esercito sovietico e di quello alleato, i militari italiani internati in Germania riacquistano la libertà.

La testimonianza di MICHELE BONFIGLIO: "Una part di me suferenz"

poesia in dialetto

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in attesa della Festa della Liberazione

13 Avril 2024 , Rédigé par anpi-lissone Publié dans #Memoria e dell'Impegno

verso il 25 aprile

verso il 25 aprile

A.N.P.I. A S S O C I A Z I O N E N A Z I O N A L E P A R T I G I A N I D ’ I T A L I A 

VIVA LA REPUBBLICA ANTIFASCISTA

Appello dell’ANPI per uno straordinario 25 aprile

La data del 25 aprile è simbolo dell’Italia libera e liberata, dopo venti mesi di Resistenza e uno straordinario tributo di sangue e di dolore. Fine dell’occupazione tedesca. Fine del fascismo. Fine del conflitto. Si abbatteva lo Stato fascista, ma anche il vecchio Stato liberale, e si avviava la costruzione di un nuovo Stato e di una nuova società. Il 2 giugno del 1946 il popolo sceglieva la Repubblica e con la Costituzione del 1948 nasceva l’Italia democratica che si fonda sul lavoro e che ripudia la guerra.  Oggi tutto è in pericolo. C’è un governo che comprende una destra estrema che ha le sue radici nel ventennio fascista e nelle sue nostalgie, che per questo intende cambiare la Costituzione. Con un uomo solo (o una donna sola) al comando – il cosiddetto “premierato” - ed un Paese frantumato in tante regioni in competizione fra di loro, con diritti diversi dei cittadini – l’autonomia differenziata delle regioni -. Una destra estrema che in vari modi tende a reprimere qualsiasi dissenso, qualsiasi protesta. Una destra estrema aggressiva, vendicativa e rivendicativa.  Tutto è in pericolo perché ci sono milioni di poveri, dilaga il lavoro precario, con un governo che taglia la sanità e la scuola pubblica, con l’intera Europa che rischia la recessione economica. C’è una grande solitudine sociale, il futuro viene visto come una minaccia.  Tutto è in pericolo perché c’è la guerra, e se ne parla spesso in modo irresponsabile, come se fosse una dura necessità o, peggio, una nuova e accettabile normalità. Mentre il mondo intero si riarma come prima dei due conflitti mondiali, si dichiara possibile una guerra convenzionale ad alta intensità in Europa. Siamo alla follia. Ha ragione il Presidente Mattarella quando sottolinea che il compito del nostro Paese è "costruire ponti di dialogo, di collaborazione con le altre nazioni, nel rispetto di ciascun popolo". È urgente un 25 aprile 2024 di liberazione dalla guerra. Cessate il fuoco ovunque. Diciamolo: va lanciato un allarme. Sono in discussione democrazia, libertà, uguaglianza, lavoro, solidarietà, pace, cioè la repubblica democratica fondata sulla Costituzione e nata dalla Resistenza. Questo 25 aprile non può essere come gli altri. Dev’essere il giorno in cui si ritrova nelle piazze di tutte le città, a cominciare da Milano, l’Italia antifascista e democratica, le famiglie, le donne, i giovani, il nostro grande popolo illuso e deluso, a cui va restituita una speranza vera di futuro, fatta di un buon lavoro, di una retribuzione sufficiente per una vita libera e dignitosa, di una pace stabile e duratura. Costruiamolo insieme questo 25 aprile, costruiamolo come un appuntamento straordinario a cui non si può mancare, come una insormontabile e pacifica barriera contro qualsiasi attacco alla democrazia e alle libertà. Costruiamolo insieme sventolando le bandiere del Paese migliore, la bandiera della Costituzione antifascista, la bandiera dell’Italia fondata sul lavoro e che ripudia la guerra, la bandiera di coloro dal cui sacrificio sorsero i semi di una nuova Italia.

FACCIAMO DI QUESTO 25 APRILE UNA GIORNATA INDIMENTICABILE. INSIEME.

LA SEGRETERIA NAZIONALE ANPI 11 aprile 2024

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